Dal Maranhão, all’estremo Nord, allo Stato di Santa Catarina, all’estremo Sud, il viaggio è lungo, e comporta sbalzi climatici notevoli. Il passaggio da uno Stato all’altro della Repubblica Federale, in un tragitto di migliaia di chilometri, e diverse ore di volo, ti mette anche davanti alla diversità di questo Paese gigante che è il Brasile. Il Nord aspro, caldo e povero, e il Sud umido, piovoso e ricco, esattamente il rovescio geografico-economico dell’Italia. Ma appena giungo, a Florianopolis, capitale dello Stato, trovo la stessa cordialità, e il medesimo spirito combattivo per la difesa dell’Università pubblica e la lotta contro “Bozo”. E ciò mi fa sentire a casa un po’ dappertutto.

Il primo incontro con il mondo universitario è il distintivo Eu amo Universidade Publica («Io amo l’Università pubblica» con tanto di cuore rosso) che mi viene offerto, da un collega, e che con gioia fisso alla mia giacca. Mi si informa che il programma di lavoro previsto nella UFSC, Universidade Federal de Santa Catarina, rischia diessere danneggiato dallo sciopero generale degli studenti, riuniti in assemblea permanente. L’attività prevista peraltro si terrà ugualmente, dato il tema: Gramsci, a cui nessuno studente in sciopero potrebbe opporsi, aggiungono sorridendo; l’unico problema sarà la riduzione del pubblico. Mi conducono a vedere la sala dove si tiene l’assemblea permanente: è un enorme spazio con il piano terra occupato da sedie e tavolini, dove studenti scrivono, leggono, discutono, mangiucchiano. Altri svolgono attività varie. Il tutto in una situazione che non può essere di silenzio, ma certo è assolutamente tranquilla, anche dal punto di vista dei decibel.

Attraverso la sala, e la riguardo dall’alto, dalle balconate dei piani superiori per avere una visione d’insieme, e mi soffermo sugli striscioni tutti inneggianti alla libertà della cultura, alla importanza che le università pubbliche vengano sostenute, disinteressatamente, mentre l’obiettivo di Bolsonaro è precisamente quello opposto: svilire, far rinsecchire gli atenei di Stato (sia dei singoli Stati della Repubblica, sia quelle federali), tagliando loro l’erba sotto i piedi, in modo che i servizi diventino pari a zero, e gli studenti si indirizzino verso gli atenei privati, di imprese e di chiese, o quelli stranieri, statunitensi, direttamente foraggiati dalle nazioni estere, a cominciare dagli Usa, come ho già avuto modo di ricordare. Tutte università che non hanno di mira la funzione civile, la cultura critica, bensì il mercato e l’azienda.

Nonostante lo sciopero, la conferenza su vita e pensiero di Gramsci, e il primo atto del minicurso su «Gramsci e una teoria generale del marxismo», vedono una presenza massiccia di studenti, e non mancano i colleghi. Nel secondo giorno, il corso prosegue. E le domande rimaste in sospeso il primo giorno riaffiorano, impellenti, implacabili, mi vien fatto di pensare, davanti al fuoco di fila di studenti e colleghi. Non si tratta soltanto però di piccoli comizi politici, ma anche di vere e proprie richieste di approfondimento: Gramsci è e non smette di essere un punto di riferimento e arriva il momento in cui mi si chiede perché in Italia non è così. A loro pare assurdo che noi italiani abbiamo un patrimonio immenso, come il pensiero (e la stessa esistenza) di Antonio Gramsci e non lo si sfrutti. Comincia a emergere un tema che verrà poi ripreso nel terzo giorno, nel corso della immancabile intervista.

A diecimila chilometri di distanza si è colta, insomma, la deriva filologistica degli studi gramsciani in Italia: giovani e meno giovani insistono quasi gridando che Gramsci è stato non soltanto un pensatore, ma un attore politico, che ambiva a progettare e realizzare la rivoluzione. Certo, specie dopo la sconfitta – l’avvento fascista in Italia, la vittoria della reazione in Europa, il trionfo del capitalismo dopo la crisi di Wall Street dell’autunno ’29… – la rivoluzione per Gramsci diventò un processo volto alla conquista dell’egemonia, attraverso strumenti prima di tutto culturali, ma egli non aveva rinunciato all’opzione del cambiamento radicale e alla volontà di essere dalla parte degli oppressi, come aveva sentenziato in un componimento scolastico del penultimo anno di liceo. E allora mi sollecitano: «Lei non pensa che sia necessario essere gramsciani per studiare Gramsci?». Sì, qui sanno bene che Gramsci viene citato, usato, anche da politici e ideologi che non sono comunisti, né marxisti, né, infine, gramsciani: ma noi, mi si dice con enfasi, noi non possiamo permetterci di mettere Gramsci in una vetrina di biblioteca. A noi servono i suoi concetti, e il suo esempio, per agire contro questa destra «terrorista» e cercare di sloggiare l’intruso dalla presidenza.

Uscendo mi imbatto in un grande murale che mostra donne e uomini e ragazzi con bandiere rosse e fiamme alle loro spalle: innalzano uno striscione: «Contra a Universidade do Capital Revolução Social». E sorrido con un certo compiacimento. Questi non hanno intenzione di mollare la lotta per «uno straccetto di laurea» (Gramsci dixit, 1916!).

4 – continua