Ora che siamo qui, a chiederci se nelle prossime elezioni politiche – tra quattro o dieci mesi, si vedrà – ci sarà una lista di sinistra sinistra, la prima domanda è: di cosa parliamo quando parliamo di sinistra? Lo dico con un pizzico di incoscienza e un certo sprezzo del pericolo.

L’argomento di solito scatena il fuggi fuggi – nei media mainstream, tra giornaloni e tv – quasi quanto il parlare di legge elettorale. Il tutto viene seppellito da un chissenefrega irrisorio, buttato lì per impedire di vedere qual è la posta in gioco, procedere nella cancellazione dell’opposizione sociale e politica, non solo in Italia ma in Europa. Basta vedere come si commentano le elezioni francesi, o la campagna elettorale di Corbyn. Come se fosse davvero incomprensibile che programmi che si propongono semplici obiettivi di redistribuzione di ricchezza e riequilibrio del welfare possano raccogliere voti.

La cosa bizzarra è che il chissenefrega in Italia percorre anche le sparse sinistre, i movimenti, i singoli ormai privi di legami politici, come se si fosse espresso un medievale giudizio di dio: divisi siamo e divisi dovremo rimanere. Una specie di maledizione, una sorta di condanna per errori insormontabili, impossibili da espiare, tantomeno da perdonare.

Intendiamoci, responsabilità ce ne sono state. Ma sono convinta che il rancore infinito non porta a nuova vita, seppellisce per sempre sotto macerie che rimangono tali. Non mi sembra una responsabilità lieve, per costruire occorre rovesciare il punto di vista – do you remember revolution? – lasciare alle spalle passato, e puntare al futuro.

Il 4 dicembre lo ha detto con chiarezza. In una situazione in cui il voto ha permesso di esprimersi, il popolo ha votato no. Un no che si è visto di recente, sempre in Italia, anche in un altro referendum, che pure aveva quasi l’aspetto di un ricatto, quello dell’Alitalia. Un no sorprendente, tanto è vero che si è detto che era stato sbagliato chiedere il voto. Tanto stupisce che ci siano volontà, desideri, progetti, richieste che non stanno nelle compatibilità prestabilite, nei prezzi scaricati sempre e solo su chi lavora. Certo non tutto il no è di sinistra, sarebbe disonestà intellettuale sostenerlo. Eppure giovani, sud, donne, lì dove si sono espresse le percentuali più alte di no, chiedono a gran voce un cambiamento che solo una sinistra sinistra può portare.

Quindi lavoro, lavoro e ancora lavoro. I lavori frammentati, spezzati, svalorizzati dal Jobs Act – sul quale si è impedito il referendum e che ora si vuole re-introdurre per decreto – lavori che non si dividono più tra fabbrica e fuori, lavori di cura e lavori di produzione. Il neocapitalismo con la sua violenza senza maschere è entrato nella vita quotidiana. Basta vivere, per capirlo, la vita ordinaria, comune. Di chi usa i mezzi di trasporto, si cura con il servizio sanitario pubblico, frequenta le scuole pubbliche, o ci lavora. Di chi non ha vite extra-ordinarie, non può garantirsi servizi speciali e su misura, non può pagare le privatizzazioni. Di chi si vede tagliare compensi, contributi, pensioni. Basta vivere giorno dopo giorno nelle città che si vogliono impossibili, in cui vengono additati “nemici” a cui si vuole togliere umanità, per renderci tutti disumani.

E non sto divagando, parlo di elezioni, di liste e di politica. La sfida del presente richiede nettezza. Dunque niente centrosinistra. Chi continua a proporlo – per esempio Massimo D’Alema intervistato ieri dal Corriere – fa confusione, invece di diminuirla. Non giova alla chiarezza di un campo politico che ha bisogno di slancio, di certezze per cui motivarsi. E dire che ci sono segni evidenti che si può andare in una direzione comune: forze politiche, movimenti, la grande forza che spinto il risultato referendario per la difesa della Costituzione, intellettuali generosi, pronti a spendersi.

Ci vuole coraggio. L’umiltà di sapere che nessuno da solo ha la soluzione, accettare che il nuovo avrà bisogno di raccontarsi anche con facce nuove. Ma non c’è da averne paura. Ci sarà spazio per chiunque avrà filo da tessere. In gioco non è il futuro di piccoli gruppi, la sfida è mantenere nello spazio pubblico la voce dei dimenticati e degli esclusi.