L’importante sentenza dell’altro ieri della Corte costituzionale (170/2014) rimette al centro dell’attenzione pubblica le unioni omosessuali. Nel valutare la vicenda di Alessandra Bernaroli, i giudici hanno affermato che è incostituzionale la norma che prevede l’annullamento «coatto» del matrimonio nel caso in cui un coniuge cambi sesso, invitando il legislatore ad agire «con la massima sollecitudine» per consentire alle persone che si trovino in quella situazione di «mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato». Se questo è certamente un fatto molto positivo, che sana un vulnus che offendeva la coscienza civile, lascia invece perplessi l’argomentazione utilizzata dalla Consulta, perché sembra chiudere definitivamente la porta alla possibilità che anche in Italia si riconosca il matrimonio egualitario come in molti altri Paesi.

Le sentenze della Corte, organo di fondamentale importanza, vanno sempre rispettate, anche quando non piacciono: il triste ventennio berlusconiano che abbiamo alle spalle si è caratterizzato non a caso per i suoi attacchi scomposti proprio al «giudice delle leggi». Tuttavia, difendere l’autonomia della Consulta non significa il divieto di commentarne anche criticamente le decisioni, con misura e spirito costruttivo. Ciò che credo occorra fare relativamente al passaggio nel quale i giudici affermano che nel nostro ordinamento è «essenziale» il requisito dell’eterosessualità per il matrimonio, inchiodando la natura di tale istituto a quella «definita dal codice civile del 1942». Si tratta di una lettura ultraconservatrice, che allontana la nostra giurisprudenza costituzionale da quella di Paesi molto simili a noi, anche sul piano delle norme fondamentali, come ad esempio la Spagna.

Siamo dunque di fronte a una sentenza bifronte. Per un verso, la Corte torna a ribadire la necessità che il legislatore riconosca giuridicamente le unioni omosessuali, riprendendo in ciò la sentenza 138/2010. Per altro verso, sembra voler escludere per sempre la possibilità che tali unioni siano né più né meno che il matrimonio, come chiedono i movimenti lgbt e come accaduto – da ultimo – in Gran Bretagna lo scorso marzo. Guardando il «bicchiere mezzo pieno», e posto che la battaglia politica per il «matrimonio egualitario» continua, occorre fin da subito che il Parlamento dia finalmente seguito all’indicazione dei giudici, e istituisca come primo passo le unioni civili. Che, dal mio punto di vista, dovranno prevedere gli stessi diritti del matrimonio eterosessuale.

Indirettamente, la sentenza richia ma tutte le istituzioni ad agire ad ogni livello, secondo le proprie competenze, per garantire a ciascun cittadino diritti e pari dignità. In Piemonte, nella legislatura regionale che si è appena conclusa, come capogruppo di Sinistra Ecologia Libertà avevo presentato un progetto di legge contro le discriminazioni determinate dall’orientamento sessuale o dall’identità di genere.

Un disegno di legge grazie al quale sarebbero state riconosciute le coppie omosessuali anche in ambito sanitario – di competenza regionale – e che mirava a superare le discriminazioni sul lavoro: la maggioranza di centrodestra non lo volle approvare. In questa regione il nostro impegno in ambito di diritti civili riparte da lì. La discriminazione e l’omofobia sono un flagello della nostra società e per combatterle ci vogliono provvedimenti legislativi concreti. Il tempo delle promesse è finito, ora deve iniziare la stagione del mantenimento degli impegni.

*L’autrice è Assessora ai Diritti e Pari opportunità della Regione Piemonte