Il mancato riconoscimento legale delle coppie di gay e lesbiche costituisce una violazione dei diritti umani. A stabilirlo è la Corte europea dei diritti dell’uomo con sede a Strasburgo, che ha condannato l’Italia a risarcire i danni non patrimoniali subiti da tre coppie di omosessuali che si erano viste negare le pubblicazioni di matrimonio nei rispettivi comuni di residenza: riceveranno 5mila euro ciascuno. Nello specifico, il nostro Paese è colpevole di non garantire a tutti i suoi cittadini il «diritto al rispetto della vita privata e familiare» sancito dall’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti umani (Cedu): per gli omosessuali italiani, infatti, com’è noto non esiste alcuna forma di riconoscimento pubblico delle loro convivenze.

La sentenza unanime della quarta sezione della Corte di Strasburgo (un organismo del Consiglio d’Europa, non dell’Unione europea) è storica, perché sancisce definitivamente che il «diritto al rispetto della vita famigliare» vale anche per gli omosessuali e che tale diritto va garantito dallo Stato attraverso il riconoscimento giuridico delle unioni civili o del matrimonio egualitario. Il legislatore italiano è libero di scegliere quale tipologia adottare.

Una sconfitta per i sostenitori del matrimonio egualitario? No, perché i giudici di Strasburgo, sulla base delle regole che disciplinano la loro giurisprudenza, non potevano decidere diversamente: la maggioranza degli stati del Consiglio d’Europa, al momento, non riconosce tale istituto. Il «matrimonio per tutti» è presente «solamente» in 11 dei 47 stati che fanno parte del Consiglio (entità che comprende anche Paesi come Russia e Turchia). A quegli 11, però, vanno aggiunti altri 13 nei quali sono previste le unioni civili: dalla somma si ottiene che la maggioranza degli stati del Consiglio d’Europa si è dotata di strumenti legali per garantire il diritto alla vita familiare di gay e lesbiche. Ed è quello che conta, perché mostra un’acquisizione giuridica ormai condivisa.

Rifiutare il riconoscimento giuridico alle convivenze stabili delle persone dello stesso sesso non è, dunque, una scelta politica che rientra tra le «libere» prerogative di uno stato: da ieri è sancito ufficialmente che l’Italia sta violando la Convenzione europea dei diritti umani. Una vergognosa macchia sulla reputazione del nostro Paese, che va ad aggiungersi ad altre, come quella relativa all’assenza del reato di tortura nel codice penale, per la quale la medesima Corte ci ha già severamente puniti.

Il parlamento ha dunque l’obbligo di colmare la lacuna che ha impedito alle tre coppie ricorrenti di vedere garantito il loro diritto a formare una famiglia: se deputati e senatori continuassero a non farlo, qualunque coppia di omosessuali italiani stabilmente conviventi potrebbe agire in giudizio per difendersi da un vero e proprio «abuso di Stato».

La sentenza di ieri, redatta dalla sezione di cui fa parte anche il giudice designato dal nostro Paese, Guido Raimondi, potrebbe essere appellata dal governo: nel secondo e definitivo grado di giudizio, la Grande Chambre, potrebbe essere rovesciata. Se non accadrà, fra 3 mesi passerà in giudicato. La decisione dei magistrati europei si inserisce esplicitamente nella scia delle due pronunce della Corte costituzionale (la 138/2010 e la 170/2014) relative alle convivenze fra persone omosessuali, che contenevano il richiamo al legislatore ad approvare norme che ne riconoscessero lo status legale e i diritti. In quelle decisioni, per la verità, la Consulta ragionava in modo (troppo) prudente, eludendo un esplicito riferimento alla «famiglia» e annoverando le unioni omosessuali tra le «formazioni sociali» di cui parla l’articolo 2 della Costituzione. La portata della decisione di Strasburgo è dunque superiore, perché ciò che è stato sancito è una violazione del «diritto al rispetto della vita famigliare»: la famiglia non può più essere restrittivamente intesa come quella esclusivamente fondata sul matrimonio tradizionale fra eterosessuali, come lascia intendere, invece, l’orientamento della Consulta basato su un’interpretazione conservatrice e «originalista» dell’articolo 29 della Legge fondamentale.

Nelle 69 pagine della pronuncia dei giudici europei si trovano anche i riferimenti alle ripetute «raccomandazioni» e risoluzioni del Consiglio d’Europa medesimo, alle molteplici direttive dell’Unione europea e alla recente sentenza della Corte suprema degli Stati uniti: un corpus giuridico sui diritti delle persone lgbt ormai enorme (e in crescita), che rende sempre più imbarazzante l’anomalia italiana. Per bacchettare la vergognosa inconcludenza del legislatore del nostro Paese non manca persino un richiamo ai «sentimenti della maggioranza della popolazione italiana» che risultano, dai sondaggi di opinione, largamente favorevoli al riconoscimento dei diritti delle coppie di gay e lesbiche: è paradossale che sia una Corte internazionale a ricordare a un parlamento che sta ignorando non solo le norme di una convenzione e i richiami di altre istituzioni, ma addirittura l’opinione dei cittadini del proprio stato. Un’umiliazione ampiamente meritata.