Spesso le acque limpide e cristalline celano abissi oscuri e insondabili. Se si leggono le esternazioni e i levigati comunicati stampa delle alte nomenclature della Ue si ha un’impressione simile: in superficie c’è sempre un accordo, ci sono sempre progressi nelle negoziazioni, tutto insomma va bene. Quindi capire cosa è uscito davvero dal summit europeo del 20-21 giugno scorso richiede impegno. Non è facile decrittare le tensioni e gli sconti in merito alla governance economia della Ue, tema tanto più oscuro e incomprensibile ai profani – tanto è costellato di sigle insolite e remoti tecnicismi – quanto materia di contrasti violenti fra le oligarchie europee.

Per capire il perché ne ripercorriamo la genesi. All’indomani della crisi del debito sovrano fra 2010-11 la situazione venne affrontata con strumenti di emergenza che sostanzialmente fuoriuscivano dalla cornice dei trattati vigenti: politiche di espansione monetaria della Bce, fondosalva-stati Esm (che sarebbe meglio definire salva-banche) e irrigidimento dei principi di austerità contabile e di bilancio, come punta di lancia alle politiche della Troika (cioè prestare fior di miliardi agli Stati che dovevano salvare le banche dei paesi più forti esigendo in cambio manovre di austerità lacrime e sangue).

Dal 2015 con la Relazione dei Cinque Presidenti è iniziato un percorso di riforma che affermando che la debolezza della architettura comunitaria è stata la causa del ricorso a strumenti emergenziali, vuole sanare tale carenza inserendo nel diritto Ue tali strutture.

Quindi una istituzionalizzazione dell’emergenza.

I punti qualificanti sarebbero un approfondimento della integrazione istituzionale con un ministro unico europeo per le finanze, un Fondo monetario europeo (evoluzione dell’attuale Esm che si basa ora su meccanismi intergovernativi) e l’incorporazione del Fiscal Compact nei trattati della Ue. A questo va aggiunta la proposta di Francia e Germania per un bilancio unico per l’eurozona.

Al di sotto della superficie ufficiale le dispute a tal proposito sono furibonde. Il motivo è la contraddittorietà stessa delle premesse. Tali riforme dovrebbero promuovere la competitività, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro. Ma verso chi dovrebbero diventare i paesi più competitivi? Visto che il mercato comune proibisce ogni tipo di tariffe o aiuti di stato, proietta i paesi in una concorrenza reciproca molto forte, col risultato che la convergenza non solo non si produce, ma si riduce: è noto a tutti che la divergenza fra nord e sud Ue è diventata sempre maggiore. Ciò spiega perché misure di solidarietà quali la condivisione dei rischi o con i mitici eurobond (titoli di stato che non sarebbero stati legati ad un singolo Stato ma alla Ue nel suo complesso) o con una assicurazione congiunta dei depositi bancari (il famoso terzo pilastro della Unione bancaria) non si sono visti mai: perché far si che non ci siano più titoli di serie A e di serie B o banche di serie A o di serie B sarebbe una distruzione delle gerarchie attuali. Cosa che chi è al vertice cioè Berlino e i suoi alleati non ha la minima intenzione di fare.

La soluzione “europeista” sarebbe di instillare in strutture istituzionali permanenti quello che i singoli Stati più forti hanno già rifiutato di fare. La ingenuità di questa posizione non è solo inutile ma pericolosa. Il diavolo si nasconde nei dettagli, si dice. Ed infatti in ogni istanza di condivisione di alcunché (che comporti costi maggiori per i paesi del “centro”) si trovano ad ogni piè sospinto condizioni che subordinano le concessioni di fondi e garanzie a buone performance in termini di bilancio, riforme e simili, sempre nella logica del “premiare chi è stato bravo”. Quindi è elevato il rischio che una finzione di solidarietà si traduca in una realtà di maggiore controllo oligarchico e una decisa primazia dei paesi core sulla periferia, con ulteriori ondate di austerità che ci sottrarrebbero l’unica ragionevole uscita dalla crisi: una crescita trainata dai salari e dalla domanda interna in un progresso economico soggetto ad un saldo controllo politico in prospettiva emancipatrice. Che sarebbe quello che dice la Costituzione.