Nel 2013 l’economista Emiliano Brancaccio aveva espresso su Il Sole 24-Ore i problemi in merito all’Unione bancaria. Nella divergenza fra nord e sud della Ue, una integrazione che procede in alcuni settori e in altri stenta, potrebbe generale «spiacevoli effetti collaterali». Com’è andata a finire? Nel corso della crisi del debito sovrano si era pensato che una soluzione fosse spingere il pedale dell’acceleratore sul «più Europa».

Le banche europee non sarebbero state più italiane, tedesche, francesi, ecc. ma sarebbero innanzitutto europee, costituendo una questione dell’intera eurozona e non solo dello Stato di appartenenza. Ciò avrebbe portato alla fine di banche di serie A e di serie B.

La cosa pareva non solo sensata ma urgente dato che le banche, comprando i titoli di Stato dei rispettivi paesi si tiravano dentro il «rischio-paese» e la loro attività ne risentiva, riproducendo la divaricazione europea e frammentando il credito.

Per arrivare a tale fine il progetto era di costruire tre pilastri: una vigilanza unica, una modalità di salvataggio unitaria (anche se il termine pare improprio, essendo la disciplina europea proprio finalizzata ad escluderli imponendo il famoso bail-in) e una garanzia sui depositi identica per tutta l’Eurozona. Questa sarebbe stata l’Unione bancaria. Così investitori e clienti non avrebbero più dovuto preoccuparsi che l’istituto fosse greco, tedesco o spagnolo.
Naturalmente le cose non sono andate proprio così. Non tutte le banche sono passate al controllo europeo, ma solo le più grandi, e se in generale gli Stati non fanno salti di gioia per perdere il controllo dei proprie istituti, i criteri scelti hanno fatto migrare sotto la tutela europea un numero variabile. Nella fattispecie una quota molto più rilevante di credito francese è sotto la Bce rispetto a quelle tedesche.

E la garanzia unitaria dei depositi? Quella è stata di fatto «accantonata». Parola del direttore generale della Banca d’Italia Salvatore Rossi in un suo intervento il 30 agosto scorso a Modena.

Tale pessimismo è insolito per i vertici di Bankitalia, che è da sempre uno dei soggetti più determinati ad spingere per varie forme di (finanz)europeismo, una delle navi ammiraglie dell’integrazione comunitaria da decine di anni, che anzi aveva definito il processo irrinunciabile per «un mercato bancario più trasparente, unificato e più sicuro» . Lo stesso Rossi era intervenuto sull’argomento nel 2016 e nel 2017, facendo presenti le difficoltà (e cioè l’opposizione di Germania, Olanda e Finlandia) ma manifestando l’ottimismo «della volontà». Che a quanto pare adesso è caduto.

Tutto il processo di integrazione europea è stato segnato da due fattori: essere espressione delle dinamiche economiche dominanti, in specie la finanziarizzazione nelle ultime decadi, e il costruire una mitologia di «interesse comune europeo» mentre gli interessi nazionali erano vivi e vegeti, nascondendo dietro un velo di ireniche neutralità istituzionali lo scontro concorrenziale fra Stati membri.

Per questo settore, un think-tank europeo ha infatti disvelato che i vertici delle casse di risparmio teutoniche (una fetta importante del mondo bancario tedesco) sono zeppe di politici locali a livelli tali da superare la nostra Prima Repubblica (82-84% dei CdA presieduti da sindaci o presidenti di provincia!), e si capisce il perché siano state escluse dal controllo europeo.

La questione più centrale è la previsione per cui l’Unione bancaria possa costituire un deciso passo verso la mezzogiornificazione del sud Europa: centralizzazione dei capitali bancari con la testa al nord, e Piigs colonizzati.

È quello che è accaduto in Italia dopo l’unificazione, e se l’esperienza storica conta qualcosa, c’è da preoccuparsi davvero.