Liu Xiaodong è uno dei pittori più quotati del momento. Da anni i suoi dipinti sono esposti negli spazi di tendenza in Europa: giusto per citare l’ultimo, alla Fondation Louis Vuitton di Parigi, dove è ora in corso una mostra sull’arte cinese. Non è un nome nuovo per il pubblico fiorentino, perlomeno quello attento: un ottimo documentario su di lui, Hometown boy, era stato proiettato nel 2012 al festival Lo schermo dell’arte. Lì si capiva quanto l’artista fosse una persona semplice: tornato dopo anni nel paese nativo, aveva ritratto vecchi amici, spesso in condizioni di miseria per la chiusura dell’industria cartiera che dava lavoro alla popolazione. Erano persone che conosceva benissimo e questo era stato decisivo nella scelta di inquadrature ed espressioni, nel raggiungimento di certe profondità. «La mia ricerca ha a che fare con l’antropologia. Tutta la mia arte ruota attorno agli uomini e alla questione dell’umanità. Per questo mi interessa il progresso dell’umanità, come l’umanità ha prodotto arte nel passato. Tutto ruota attorno all’umanità».

Liu non sembra un cittadino del mondo. I suoi sogni – ci dice – sono tutti ambientati a Jincheng, il suo paese, che è in Liaoning, regione al confine con la Corea del Nord. «Sento al tempo stesso l’influenza dell’arte orientale e di quella occidentale. Quanto all’arte cinese, preferisco quella di migliaia di anni fa, prima della dinastia Yuan (1271-1368, ndr). Un’arte meravigliosa. E nell’arte asiatica, anche l’arte persiana, l’influenza Moghul, anche l’arte del Ghandara. Gli antichi sono i migliori per me. Vale lo stesso per l’arte occidentale. Preferisco il Medio Evo e l’arte che viene prima del Rinascimento o del primo Rinascimento. Certo, fra i moderni apprezzo Courbet, Manet, e gli altri che tutti conoscono, ma negli artisti del passato puoi vedere un’anima pura. Dipingono in modo davvero concreto e dettagliato. Riescono ad arrivare alla natura in modo veramente specifico. E dopo che hai visto opere del genere, quando ritorni a guardare la natura, ti accorgi che l’opera corrisponde a ciò che vedi. E guardi la natura in modo diverso». Per corrispettivi, viene in mente Dürer e la nostra tradizione di naturalisti scientifici. «I cinesi sono abituati a vedere il paesaggio in modo orizzontale più che in prospettiva. Più che cercare di vedere cosa c’è in profondità, seguo la pennellata. Non è una questione di diversi livelli di distanza o di piani, si tratta invece di seguire una linea, poi un’altra linea, poi un’altra».

Liu è in Toscana perché Arturo Galansino, direttore di Palazzo Strozzi, lo ha invitato a dipingere la realtà delle fabbriche cinesi di Prato. Le opere appena realizzate sono ora presentate a una personale alla Strozzina, Migrazioni (fino al 19 giugno, catalogo Marsilio, pp. 111, con saggi di Francesco Bonami e Giorgio Bernardini). Una mostra quindi, che quasi di nascosto, racconta di uno dei fenomeni sociali più vistosi della Toscana contemporanea. Di cinesi a Prato nel 1990 ce n’erano cinquecento, nel 2000 cinquemila circa, diecimila nel 2005 e oggi, si stima, circa trentamila. Molti vengono dalla stessa città, Wenzhou, di tre milioni di abitanti. «La situazione delle industrie che ho visto a Prato non è sorprendente, da un punto di vista cinese. È anche meglio di una fabbrica in Cina. Per l’Italia, so che si tratta di qualcosa di inimmaginabile. Sono posti molto caotici: gli operai vivono, mangiano e dormono nelle fabbriche. Questo in Cina è normale, non lo è in Italia. Per me era solo importante affrontare questo tema da una prospettiva diversa. Rendere visivamente luoghi estremamente confusi e con così tanti oggetti nello sfondo implicava il ricorso all’astratto. Ho dovuto riflettere molto su come dipingere un luogo così caotico. Alla fine ho scelto di lasciare astratti alcuni particolari e di concentrarmi su quello che mi interessava».

Nel documentario realizzato per la mostra fiorentina, Liu racconta di operai che lavorano anche venti ore al giorno, tornano poco a casa, contano i soldi e non sognano di andare in vacanza. Alla fine della loro vita, si adoperano per spedire la loro salma in Cina. Avrebbe voluto dipingere gli interni delle loro case, coi muri scrostati e il disordine, ma una donna gli ha detto che in patria credono che gli emigrati stiano bene e non vogliono che si sappia della realtà misera in cui vivono. Così Liu ha potuto ritrarre questi uomini dalle facce serrate e mute solamente mentre fumano per strada o aprono la portiera di un’auto, nella Chinatown pratese, il «Macrolotto zero». O nelle fabbriche. Il dipinto più esaltante della mostra è Chinatown 4: un grande interno di azienda tessile, dallo sfondo non-finito, dove si intravede qualcuno cucire a macchina. In primo piano, una scena da dopolavoro: alcuni operai giocano a domino. Liu pensa che gli esseri umani alla fine si somiglino tutti. Significa che a un certo punto della sua analisi di pittore, emergono sempre gli stessi tipi caratteriali. Nei dipinti più riusciti, questo si vede benissimo: c’è l’indeciso, lo spaccone, la madre saggia, la bimba triste e la ragazza timida.

Le opere esposte al piano interrato di palazzo Strozzi comprendono anche memorie di un viaggio dove l’artista ha ripercorso la rotta dei rifugiati in Europa. È andato alla stazione di Vienna, ma non è rimasto impressionato. I migranti erano pochi, se paragonati ai flussi di massa che d’abitudine si vedono in Cina. Così ha dipinto le rotaie dei treni, per lui è quello il mezzo che trasporta i sogni delle persone. Poi è andato a Bodrum in Turchia e a Kos in Grecia: qui ha ritrovato i rifugiati e li ha ritratti seduti in cerchio in una spiaggia, mentre giocano a chi trova una moneta nascosta in una mano. «Naturalmente i miei dipinti hanno uno sfondo politico, perché scelgo argomenti a sfondo politico. Cerco società complesse, posti dove emergano dei problemi. Ma non credo di poter cambiare qualcosa direttamente con i miei dipinti. Certo, chi ha il potere di cambiare le cose, potrebbe vedere i miei dipinti e decidere di cambiare le cose. I miei dipinti sono come notizie. Dipingo quello che vedo e lo inserisco nella tela, come se fosse una notizia. Penso solamente a quello che vedo e a come rendere esteticamente le situazioni che ho deciso di dipingere. Sono molto importanti lo spazio e il tempo. Quello che dipingo è spesso un momento temporale, perciò è importante la scena, ma soprattutto il tempo. Credo che sia diverso rispetto all’arte contemporanea. Ora a Palazzo Strozzi c’è una mostra sui Guggenheim. Quegli artisti hanno vissuto tanti eventi storici, in un periodo molto caotico. Ma quello che si vede nella loro arte sono solamente delle forme in movimento. È molto strano, è come se l’arte si fosse fermata con gli strappi di Fontana. Mi chiedo dove andrà l’arte a questo punto. Per me l’arte figurativa è più potente, ma è una visione personale. Chiaramente, non penso che tutta l’arte debba essere figurativa. In quanto pittore, credo che il realismo e l’astrazione si possano combinare, non dipingo in modo puramente realista».

Arturo Galansino, che mi accompagna, chiede a Liu se i pittori legati al Partito Comunista gli abbiano insegnato qualcosa, anche dal punto di vista tecnico. «La grande differenza è che io dipingo per me, mentre loro per il popolo. Io dipingo ciò che voglio, loro ciò che dice il partito. Immaginiamo che tu sia molto ricco e mi chiedi di farti un ritratto. Chiaramente io lo faccio, ma il dipinto non sarà così personale come se avessi scelto io il soggetto». Anche la dimensione del tempo è fondamentale nelle opere di Liu. «Il problema è che nella realtà ci sono molte altre cose. Se passi molto tempo a fare qualcosa, sconvolgi la vita delle persone. Dipingere interrompe la vita di queste persone. Ma dipingere non è solamente cosa piace fare a me. Per me dipingere è essenzialmente un lavoro. Funziona come il destino. Non è così importante dove vado o perché scelgo un determinato luogo. Una delle ragioni per cui accetto inviti dappertutto nel mondo è che dipingendo, indipendentemente da tutto, capisco qualcosa in più di me stesso. Ha a che fare con un principio zen. Non importa dove sarai domani, importa come hai speso il tuo tempo fino ad adesso. Puoi essere ovunque e di fronte a te ritrovi sempre, ciclicamente, le stesse persone, gli stessi caratteri della realtà».

Guardando certe opere di Liu – la serie di Hometown boy o i dipinti di prostitute in interni banali, con riviste patinate e tappezzerie floreali – sembra di vedere la potenza di un Gauguin o di un Matisse redivivi. Ma sarebbe inappropriato servirsi ancora di categorie e cronologie occidentali. Gli chiedo quali siano i libri che hanno contato nella sua formazione – e di nuovo, anche alla fine, mi stupisce. «La Bibbia, per il modo in cui è scritta, nel senso che è veramente semplice, perché passa da un oggetto all’altro, con semplicità e profondità. Anche l’antica letteratura cinese raggiunge certi vertici. Puoi seguire la vita di un uomo, passo dopo passo, e alla fine accade qualcosa di meraviglioso. C’è un libro erotico, molto sporco, in cui si parla di un uomo ricchissimo, che aveva otto o nove mogli e succedono un sacco di cose sporche, con sua cognata, e via dicendo. È un romanzo molto grafico e davvero sporco. Alla fine, tutte le sue mogli muoiono e lui rimane solo con due donne e un sacco di soldi. Alla fine lascia tutto il suo denaro ai contadini che sorvegliavano i suoi campi e cammina in lontananza con queste due donne. È una conclusione stupenda per un romanzo erotico. Ecco sono queste le storie che mi piace leggere, semplici e potenti».