Al centro, o per meglio dire all’origine, della nuova raccolta di versi di Angelo Andreotti, Tra parola e mondo (Manni, pp. 120, euro 14), possiamo individuare un’illuminazione filosofica ed esistenziale tout court prima ancora che poetica (fermo il fatto che la poesia è per sua natura sempre anche esistenziale, almeno in parte, anche quando sia puramente lirica). E potremmo tradurre questa illuminazione in una domanda, a partire proprio dalle parole del titolo (a loro volta prese in prestito dalla poetessa scozzese Kathleen Jamie): è possibile trovare una conciliazione fra il mondo e le parole che lo nominano, lo esprimono, lo descrivono? Fra noi e le cose? Fra ciò che sta dentro di noi e ciò che sta fuori?

È SUL SENSO di questa domanda variamente formulata, in fondo, che si gioca il senso stesso della vita: è possibile trovare un punto di equilibrio nel quale ciò che siamo, il nostro abitare il mondo, ci sia riconoscibile rispetto a ciò che avremmo voluto o vorremmo essere, rispetto ai futuri che avevamo immaginato? E rispetto a quelli che tuttora ci rappresentiamo? Potranno, le parole, colmare ogni eventuale vuoto, ogni eventuale distanza?

L’intera, bellissima raccolta di Andreotti sembra attraversata da questa tensione, da questa ricerca di senso, di misura. Certi riferimenti, certi lemmi ricorrono in continuazione: il vuoto, appunto, l’assenza, il silenzio, il tempo. «Un altro tempo», ancora più in particolare, è un’espressione che ritroviamo disseminata fra le pagine: ed è quasi una cifra, in effetti, nella quale sembra tenersi tutto il discorso. È come se Andreotti scrivesse da un tempo di mezzo fra due tempi ciascuno dei quali è ugualmente «altro» rispetto al primo: è «un altro tempo» il passato, dal quale provengono ricordi, sogni, volti e voci di presenze che non ci sono più, tanto quanto è «un altro tempo» anche il futuro, che riempiamo di promesse e di attese.

Ecco, Andreotti scrive da un presente nel mezzo: da un presente notturno, si potrebbe aggiungere, perché è quasi sempre la notte la dimensione in cui le sue parole sono inscritte (la notte che «ha ospitato l’andarsene/di molti sogni», leggiamo ad esempio in «Questa è l’alba», o la notte in cui «ciò che ricordi/è come un passare di nebbia/che rincorre un filo di vento», come leggiamo invece in «Ciò che ricordi»). Lo sentiamo e lo vediamo sudare, commuoversi, interrogare i suoi morti; a tratti ne percepiamo la disperazione, come se le cose gli stessero sfuggendo di mano, come se stesse perdendo la speranza di rimettere insieme i pezzi, i «frammenti sconnessi», delle «voci del mondo».

MA NON SMETTE MAI di cercare, ed è allora come se alla fine ci dicesse: guardate, solo nel presente che ci è dato, quale che sia, possiamo sperare di recuperare «tutto il bene che si perde», solo attraverso «quel po’ di dolcezza» che abbiamo accanto possiamo sperare di rompere «il duro del mondo». È tutto nel presente «il perduto da trovare»: ed è dunque solo a partire da qui che possiamo immaginare nuovi futuri, che possiamo provare a costruirne sui resti di quelli passati.

PUR CONSAPEVOLE della loro fragilità, Andreotti sembra credere nel potere delle parole, ma sembra credere altrettanto nel potere del silenzio e dell’ascolto, o comunque delle cose nel loro puro essere e darsi. Poco importa se attraverso le parole o solo attraverso il contatto dei corpi, quel che conta è tenersi nel «cerchio del nostro respiro»: ciascuno accogliendo, in sé stesso, il senso degli altri. E per il resto «lasciare il tempo al tempo» che passa, non resistergli più: «concederci», finalmente, «al suo trascorrere operoso». Potrebbe accadere il miracolo di ritrovarsi «sorpresi in uno stesso tempo/brindando poi con le labbra alla notte».