L’Italia è un Paese in coda. File nelle vie dello shopping, davanti agli uffici postali, ai negozi e alle banche. Lunghe code di persone in attesa del tampone e di bare davanti ai cimiteri e poi ancora più lunghe code davanti ai centri caritas per il cibo. Gente che aspetta in piedi per ore nella rispettosa distanza. Distanziamento che nei mesi si è rivelato una spaccatura non solo sociale, ma economica, fisica e morale.

La solitudine ha preso il sopravvento, ognuno come si dice in Congo (art. 15 – chacun devait se débrouiller) se la deve sbrigare da solo. Tutto assume forme iperboliche, esorbitanti, istericamente eccessive, sono sparite le forme di mediazione, pochi samaritani (e alcune politiche pubbliche) hanno mitigato la situazione sul piano economico, ma nessuno riesce a fronteggiare la deriva esistenziale del cambiamento.

La pandemia sta prendendo sempre più la forma di un’occasione perduta: oltre la perdita della vita, del tempo, del lavoro, si sta perdendo un’incredibile possibilità di cambiare. Siamo, come diceva Flaiano, così «sfiduciati nel futuro che ci stiamo mettendo a progettare il passato».

Stiamo fermi, in attesa che tutto torni come prima, speriamo di tornare a un mondo che è la causa stessa della pandemia: produci, sposta, estrai, sotterra.

Più che aggiungere occorrerebbe togliere, dare prima di ricevere, restituire prima di prendere, trovare il valore prima del prezzo, distribuire prima di accaparrare, essere giusti prima che giudici. Agire per quel cambiamento per il quale non c’è bisogno di mettersi in fila.