Tra le molte foto di Hebe Uhart apparse sui giornali, dopo la sua morte avvenuta l’11 ottobre a Buenos Aires, pochissime la ritraggono sorridente: in genere, ci viene mostrata una donna anziana, non priva di civetteria (una sciarpa colorata, un rossetto vivace) ma dall’aria severa, spesso ritratta sul suo luminoso terrazzo invaso da piante amatissime. Eppure, chiunque l’abbia conosciuta parla innanzitutto di un senso dell’umorismo fuori del comune e di una conversazione scintillante, interrotta da brevi risate esplosive, di malizia infantile.

ERA, HEBE UHART, una persona e una scrittrice divertente, di singolare chiarezza e trasparenza, ma capace di condurre il lettore verso insospettate profondità e di rivelargli quanto di insolito, oscuro, folle c’è nella vita quotidiana, nelle piccole vicende domestiche, nelle storie di bambini e donne troppo spesso senza voce, negli incontri casuali, negli infiniti, sconosciuti universi che si trovano, in realtà, a un passo da noi, dietro l’angolo.
Nata nel 1936 a Moreno, paesetto ora divenuto un sobborgo della capitale («Sono suburbana – spiegava Hebe – Né contadina, né cittadina») da una famiglia di immigrati baschi e italiani, Uhart cominciò a scrivere ancora bambina, ma solo quando si trasferì a Buenos Aires per studiare filosofia – una materia che, dopo essere stata maestra rurale, insegnò per oltre vent’anni all’Università – pensò che sì, per lei la scrittura poteva essere più di un passatempo.

COME L’URUGUAYANO Mario Levrero, era convinta che scrivere significasse ricordare, e che memoria e immaginazione si identificassero: non c’è bisogno di inventare, diceva, tutto è già lì, in attesa di essere scoperto da chi voglia guardare con attenzione, e soprattutto sappia ascoltare, estraendo da ogni incontro parole nuove o inventate, modi di dire ed espressioni afferrate al volo nei momenti e nei luoghi più imprevisti.
Dal suo esordio con la raccolta di racconti Dios, San Pedro y las Almas (1962), sino all’ultima raccolta di storie vere, l’incantevole Animales (2018), Uhart ha scritto e pubblicato molto (e anche scartato molto, perché se un testo non riesce bene da subito, diceva, è come un vestito tagliato male, non si rimedia più), scegliendo sempre la brevità, tra romanzi che superano di poco le cento pagine e moltissimi racconti, in buona parte sconosciuti al pubblico italiano: solo il romanzo Traslochi (2015), e la raccolta di racconti Turismo urbano (2016) sono apparsi in Italia grazie a Maria Rosa Bricchi, che li ha scoperti per Calabuig, rimediando a una vistosa distrazione della nostra editoria.

ELENCARE I TITOLI dei suoi quattro romanzi e delle dieci raccolte di racconti apparsi tra i primi anni sessanta e l’inizio del nuovo secolo significherebbe, in un certo senso, ripercorrere la storia delle piccole case editrici argentine indipendenti, dalla vita così breve che i testi di Uhart andavano afferrati al volo o scovati frugando nelle librerie dell’usato.
Anche se i suoi libri erano apparizioni quasi inafferrabili, in molti si accorsero di lei, di quella scrittura unica, di quel singolare approccio nei confronti della realtà (il giudizio lusinghiero di Fogwill, che la considerava la migliore cuentista argentina, e quello altrettanto favorevole di Ricardo Piglia, continuano ad accompagnarla), ma rimase per molti anni una «scrittrice per scrittori», seguita da un ristretto pubblico di appassionati che sapevano cogliere l’elemento eccentrico e straniante delle sue storie irresistibilmente ironiche, anche quando a ispirarle erano amare vicende familiari o legami amorosi catastrofici, come quelli che Hebe visse con uomini sbagliati e poco rimpianti: uomini con show – che erano cioè dei personaggi, e affascinavano per questo -, raccontava lei senza autocommiserarsi, aggiungendo: «e lo show si paga».

FU A PARTIRE dal 2003 che le cose cambiarono, quando un editore solido e di grande prestigio come Adriana Hidalgo decise di inserire Uhart nel proprio catalogo, e la conquistata visibilità le assicurò un pubblico più vasto, nonché un riconoscimento e un successo di cui lei non si curò mai troppo, nemmeno quando, nel 2010, l’edizione completa dei suoi racconti da parte di Alfaguara la consacrò come autrice di importanza internazionale. No, a Hebe Uhart la fama non interessava granché, e non le erano mai piaciute le celebrazioni, i convegni, il mundillo intellettuale di Buenos Aires, che le sembrava autoreferenziale, endogamo e pieno di sé; così decise di averne abbastanza degli omaggi alla sua narrativa e di non voler diventare un «automa», pronto a scrivere ciò che ci si aspettava da lei.
Scelse, a settant’anni, di mettersi in viaggio (viaggiare le era sempre piaciuto) «da qui a lì», girando tutta l’America latina per sentirsi obbligata a pensare e scrivere cose nuove, a vedere e vivere da vicino margini e periferie.
«Voglio che mi spuntino nuove piume», disse in un’intervista a El País, e diventò la splendida autrice di originalissime cronache di viaggio, piene di immagini, storie e linguaggi che altri occhi, altre orecchie non avrebbero saputo cogliere, e pubblicate con regolarità da Adriana Hidalgo, che ora sta per mandare in libreria l’edizione (ormai postuma) di tutti i suoi romanzi in un solo volume.

PRONTA A METTERSI IN GIOCO e a cambiare strada pur di restare sé stessa, «maestra» ineguagliabile e levatrice di nuovi talenti, a dire degli allievi del laboratorio di scrittura che per anni ha avuto luogo tra i gatti e le piante del suo minuscolo appartamento, è in un discorso tenuto in Cile, quando le venne assegnato il premio Manuel Rojas, che Hebe Uhart ha espresso con la consueta brevità le sue convinzioni di scrittrice acuta e saggia (una saggezza duramente conquistata), estranea alle convenzioni: «Penso e ho sempre pensato che la coscienza della propria importanza cospiri contro la possibilità di scrivere bene, e soprattutto penso che l’ipertrofia del ruolo giochi contro uno scrittore e qualsiasi artista. Quando vedo che qualcuno si fa un vanto del proprio ruolo, sospetto che non scriva bene».