È una destra che si nutre di una ideologia «eclettica», ovvero dai contorni indefiniti e quindi perennemente mutevoli, quella che si è presentata agli italiani con l’inizio degli anni Novanta, sotto le vesti del «nuovo» inteso come inedito. In realtà, la mancanza di un baricentro che non sia il richiamo ossessivo all’«identità», variamente declinata ma quasi sempre intesa in senso «cristiano», è funzionale ad un’opera di vero e proprio camaleontismo, alla perenne ricerca di un consenso elettorale, prima ancora che politico. La qual cosa ha spesso fatto a pugni (ma non troppo) con il tentativo, da parte di alcuni autori, di sancire l’esistenza di una qualche cultura autonoma di destra, capace di coniugare la «tradizione» del comunitarismo alla modernizzazione, quest’ultima intesa prevalentemente, anche se non esclusivamente, come riconoscimento delle ragioni del liberismo.
Gabriele Turi, docente di storia contemporanea all’Università di Firenze, nel suo volume dedicato alla Cultura delle destre (Bollati Boringhieri, pp.175, euro 14) passa in rassegna protagonisti, tendenze, atteggiamenti e mentalità che in almeno due decenni si sono accompagnati all’affermazione, non esclusivamente politica, del blocco sociale ed economico che si è stabilmente riconosciuto in Silvio Berlusconi. Un passo indietro, come quello che ha fatto nei suoi libri Guido Crainz, ci permette di vedere nella stagione del craxismo una prima, compiuta raccolta di motivi e moventi che, dopo il 1989 e il diluvio di tangentopoli, avrebbero trovato un’eco ben più ampia.
Data infatti agli anni immediatamente successivi ai rivolgimenti manifestatisi – anche a livello istituzionale – tra il 1968 e il 1977, l’esigenza, espressa non solo da ambienti neoconservatori, di dare fiato ad una «nuova destra» che non fosse eccessivamente debitrice di quella fascista come del vecchio liberalismo. Queste ultime erano concepite come inadatte alla sfida dei tempi. Già allora si coglieva peraltro lo sfilacciamento del tessuto costituzionale e le opportunità che si aprivano per chi avesse voluto giocare qualche mossa d’anticipo. Necessitava tuttavia un quadro diverso, che solo il cedimento strutturale del sistema dei partiti offrì a nuovi giocatori, disposti ad azzardi calcolati.
Il bacino elettorale della Democrazia cristiana, ma anche parte consistente di quello socialista e poi, in alcune sue componenti, di quello comunista, offrivano una posta cospicua per chi avesse avuto la forza e l’abilità di presentarsi come, al medesimo tempo, la novità della stagione che andava aprendosi e, non di meno, il garante di interessi radicati perché corporativi. Come siano andate le cose è fatto noto. A ciò si è accompagnato il ramificarsi di un discorso sulla necessità di una nuova ideologia collettiva, in sintonia con il mutamento di passo negli equilibri politici. L’ideologia della «morte delle ideologie», alla quale hanno concorso soprattutto intellettuali di area liberale, più che di trascorsi neofascisti.
Peraltro, più che di concetti articolati, e di un pensiero compiuto e a sé stante, è meglio parlare oggi di un lessico della destra, il quale rivela una rilevante diffusione, soprattutto nel discorso di senso comune, che è a sua volta indice di un’egemonia di fatto: parole come «libertà», «individuo», «gente» ma anche «mercato», «valori», «ordine» e così via richiamano non tanto un passato che ritorna ma una nuova costellazione di significati che cerca di coniugare estremi tra di loro antitetici, articolandosi in un percorso essenzialmente populista.
Poiché al centro dell’archetipo neoliberale c’è la dialettica tra l’individuo decontestualizzato, ossia privato di qualsiasi legame e relazione concreta con i suoi pari, estraniato dalla sua funzione di produttore, e la dimensione del «popolo» come titolare non tanto di sovranità, quindi soggetto di emancipazione, bensì in quanto aggregato informe di individui omogenei e indifferenziati. In tale modo, all’accettazione dell’atomizzazione sociale promossa dal «mercatismo» si ricollega e ricompone la determinazione idealizzata di una collettività primigenia, intesa come una massa uniforme accomunata da gusti comuni.
Lo spazio di sintesi tra i due opposti, il privato individualistico, esaltato come il vero ed unico nucleo della soggettività, e il pubblico della «comunità», nazionale o locale che sia, è dato dal feticcio della libertà, quest’ultima intesa come assenza di vincoli e di senso del limite. Non a caso la figura dello Stato, che tanta parte ha avuto nel fascismo storico, è qui invece cancellata, consegnata ad una sorta di dannazione della memoria. Esiste una sola sfera collettiva accettabile ed è quella pulsionale, alla quale si richiama anche l’idea di «nazione». Il rimando all’aspetto emotivo di ciò che resta del legame tra individui è non di meno funzionale all’enfatizzazione di un patrimonio ancestrale, quello per l’appunto della «tradizione», che consisterebbe in un substrato immobile e immutabile di valori, mentalità ma soprattutto simboli, a partire dal crocefisso, radicati nel territorio.
Non si celebra qui la religiosità ma piuttosto l’estinzione della laicità. L’insieme di questi elementi costituisce, per i teorici della destra, un imprescindibile presidio identitario dello spazio condiviso, in risposta alla globalizzazione, di cui si rifiutano alcuni aspetti, a partire dai processi migratori, ma alla quale ci si ricollega quando essa è concepita come strumento per svellere gli interessi di cui sono portatori gruppi visti come irriducibilmente avversi, a partire da una parte dei ceti che lavorano in settori strategici dell’offerta pubblica, come gli insegnanti.
Il tema fondamentale dell’anticomunismo ritorna quindi in chiave extra-storica, slegato dalle sue originarie premesse culturali e morali, riproponendosi invece come collante indispensabile all’interno di un discorso dove si esaltano, in chiave narcisista, le virtù delle élite eroiche (imprenditori ma anche intellettuali «irregolari») di contro al rifiuto del ruolo delle élite pubbliche, descritte come figure parassitarie, esse stesse, in qualche modo, ibridate da una qualche forma di comunismo dello spirito altrimenti chiamato «statalismo». Se la trama ideologica è raccolta e compiutamente raccontata da Turi nei suoi molti passaggi, non di meno sono censite le esperienze e i soggetti che in questi anni hanno dato corpo a questo mainstream socioculturale. Ne emerge un quadro ampio, dove a fare parte di questo progetto sono una pluralità di protagonisti.
Nel pensiero della destra, di governo e di movimento, si dà un tempo senza storia. Non è un caso, infatti, che un campo di battaglia prediletto sia stato, e rimanga, il discorso storico e la storiografia. L’appropriarsi del passato è inteso come esercizio di una legittima rivalsa, dopo lunghi decenni di immeritata subalternità dettata dall’«egemonia comunista e azionista», non meno che come la grande opportunità per mettere ordine all’interno della comunicazione pubblica, partendo dalle stesse scuole e dalle università, «roccheforti della sinistra» (Mariastella Gelmini).
I tentativi sono in parte falliti ma lo svuotamento di risorse che le prime e le seconde hanno subito non è di certo stato casuale. Mentre il successo pubblicistico di autori come Giampaolo Pansa fa riflettere su quale sia stato il vero varco che in questi decenni si è aperto nell’opinione pubblica. Gabriele Turi ci consegna quindi uno spaccato di storia culturale, ben lontano dall’essersi esaurito, a fronte di una società sempre più affaticata e in forte smarrimento qual è quella italiana.