Si dice che tra gli otto fratelli fosse la prediletta, anche di quel padre violento che i figli godeva a distruggerli abusando del proprio potere. Due dei ragazzi si suicideranno, dopo vite brevi di alcol, droghe, pillole, ricoveri coatti in manicomi di lusso, una storia che nelle biografie di quella famiglia ricorre con terribile continuità. I Sedgwick erano ricchissimi, la piccola Edie cresce in un ranch enorme in California, riceve un’educazione esclusiva, studi elitari, sport, equitazione. È bellissima, seduttiva, capricciosa: tutti l’adorano.

 

Ha ventun’anni quando arriva a New York, è facile per lei conquistare subito la scena, cene, party, ritrovi di artisti, non si ferma mai come un folletto androgino con la sigaretta sempre stretta tra le dita .Che Edie Sedgwick e Andy Warhol si incontrassero era inevitabile, così come che lui ne fosse incantato. E che Edie diventi la sua Superstar prediletta anche. Il suo è un corpo performativo perfettamente sincronizzato col desiderio iconografico dell’artista, racchiude storie, zone oscure dietro all’allegria della sua fossetta. Non è solo perché è bella, c’è qualcosa in più, qualcosa che la macchina da presa coglie e trasforma in narrazione. «Ho subito pensato di fare un film su una giornata intera nella vita di Edie. Il fatto di scegliere alcuni elementi aiuta a trasformare la realtà, non siamo più davanti alla vita vera ma alla sua messinscena» diceva Warhol (chissà cosa farebbero oggi su Instagram e social) .

Eccola dunque Edie diventare Poor Little Rich Girl (1965: si trucca, fa ginnastica, fuma dell’erba, discute con Chuck Wein. In Vinyl (1966) non sentiamo mai la sua voce, seduta col tubino nero, bicchiere e sigaretta, osserva quanto accade con aria straniata quasi a rivelarme la «finzione». Si muove impercettibilmente, accenna un ballo solo con le spalle: nonostante i maschi intorno a lei si stiano massacrando la sua presenza cattura la scena (e l’occhio del regista).

Nel siderale bianco e nero di Outer and Inner Space (1965) su doppio schermo Edie si guarda, e ci guarda, gli occhi scurissimi sotto ai capelli corti grigi, un po’ lunari. Ride, parla della famiglia, dell’uso sfrenato di medicinali (e psicofarmaci) che hanno sempre fatto, accende molte sigarette. Le immagini sono «sfalsate», uno schermo sorride, sull’altro accenna qualche frase, si guarda intorno, l’ennesima icona di sé stessa arriva da un altro schermo di profilo. Non accade nulla, accade tutto, l’incontro tra regista e performer è un’epifania.

In poco tempo Edie Sedgwick diviene la protagonista di molti film di Warhol, è sempre lì, stella della Factory dove le cose corrono in fretta e possono finire all’improvviso – i due si separareranno bruscamente, quando lei va via con Dylan .

Il Fid Marseille nella bella retrospettiva (curata da David Schwarzt) ha presentato i film di Sedgwick e Warhol, alcuni molto difficili da vedere come il citato  Outer and Inner Space, o Lupe, (1966) in cui Warhol ricrea il suicidio dell’attrice Lupe Velez riferendosi ai racconti di Kenneth Anger, che la immagina morta riversa sulla tazza del gabinetto, più che alla leggenda «ufficiale» che la vuole distesa senza vita nel suo letto con un magnifico abito tra i fiori.

Sul doppio schermo, a colori, Edie Sedgwick diviene Lupe rimanendo se stessa, quasi che Warhol compia il percorso inverso trasformando la diva del passato in Edie. La vediamo svegliarsi, fumare masticando come sempre chewing-gum, truccarsi, pettinarsi, mentre dall’altra parte dello specchio siamo alla sua ultima cena: magrissima davanti al piatto non tocca cibo, si alza, fuma, inghiotte una pillola dopo l’altra, beve un sorso di vino, la testa cade nel piatto. È Edie coi suoi disturbi alimentari, la sua dipendenza? Lupe – l’ultimo film insieme a Warhol, Sedgwick muore a 28 anni nel 1971 – è magnifico e crudele ma la visione dei film tutti insieme restituisce proprio questo.

l cinema performativo di Warhol capovolge la forma tradizionale della messinscena sui corpi dei suoi protagonisti, li rende «opere d’arte» illuminandone la fragilità e il bisogno di essere lì. «Andy è un po’ come il marchese De Sade, nel senso che la sua sola presenza era un elemento scatenante: faceva sentire le persone libere di inscenare le proprie fantasie oppure, in certi casi, di fare cose molto violente per costringerlo a guardarle» diceva di lui il regista Emile de Antonio. Magnifico e crudele gesto d’artista, appunto.