Provate a fare un sondaggio fra i più giovani e i meno giovani, soprattutto fra quelli che non hanno particolari passioni scientifiche, e chiedete che scienziati viventi conoscono. Potete starne certi: Stephen Hawking sarà invariabilmente la prima o la seconda risposta. Anche chi scrive ne ha avuto esperienza diretta: per anni ho selezionato giovani liceali brillanti per un corso in un centro di ricerca di Barcellona destinato alle più dotate e ai più dotati. E anche loro facevano sempre il nome del cosmologo inglese. Anche se poi pochi sapevano specificare di che si occupasse, a parte, qualche volta, la vaga risposta «i buchi neri» o «il big bang».
Ma, e proprio questo è il punto, tutto sommato non importa: Hawking è riuscito come pochi altri a rompere quella barriera che separa la ricerca scientifica dalla cultura popolare. È per questo che verso il grande cosmologo inglese abbiamo come società un enorme debito. Immobilizzato sulla sua sedia a rotelle, con il suo caratteristico sintetizzatore vocale che 1986 l’aiutava a dar forma, con sforzo enorme, ai suoi pensieri, Hawking si è trasformato in un’icona.

UN’ICONA della scienza, «lo» scienziato per antonomasia, la figura amica che attraverso i suoi incomprensibili libri – ma adorati da tutti, forse proprio per la loro inaccessibilità mescolata al fascino che l’astrofisica esercita su tutti – le sue comparsate in televisione, nei film, nelle più famose serie televisive, nei cartoni animati, nei fumetti, ci ha accompagnato e ci ha fatto affacciare su una disciplina ostica, ma che grazie alla sua rassicurante figura ci è sembrata meno aliena. E ha dimostrato a milioni di persone in tutto il mondo che la scienza è affascinante ed è accessibile anche a chi è su una sedia a rotelle.
Per parafrasare Voltaire, se non ci fosse stato Hawking, si sarebbe dovuto inventarlo. Dove trovare un esempio così fulgido di superazione personale e di tutti i limiti che la natura ci ha imposto? Ai naturali limiti della mente umana quando si avvicina a concetti astratti e contro-intuitivi come quelli della cosmologia, dell’astrofisica dei buchi neri o della meccanica quantica, nel suo caso si sommavano i limiti fisici imposti dalla sua terribile malattia, e quelli medici di chi, 50 anni fa, gli aveva prognosticato solo una manciata di anni vita.
Eppure Stephen Hawking era lì. Tutto storto su quella sua sedia che era una prigione – abbandonata con un enorme sorriso solo quando, qualche anno fa l’Agenzia spaziale europea gli regalò, su sua esplicita richiesta, un volo a gravità zero su uno degli aerei speciali che usano gli astronauti per allenarsi – lui sfidava ogni logica umana.

COME SCIENZIATO, esplorando campi lontani e ineffabili della conoscenza, e sempre più dovendo contare solo sulla sua testa senza supporti per farlo. Come paziente, rompendo ogni record di sopravvivenza in condizioni ogni giorno più complesse e precarie. E come essere umano: perché in realtà quello che tutti ammiravamo di lui era la sua profonda umanità, la sua lotta per la sopravvivenza che tanto ci caratterizza come specie, la sua sete di conoscenza, e persino la sua fragilità. Negli ultimi anni era tale che per muoversi doveva mobilitare una schiera di persone e per lunghi viaggi poteva solo usare la nave.
Eppure chi ieri ne tesseva le lodi da tutto l’orbe terraqueo sui vecchi e nuovi media molto di rado ne apprezzava i veri meriti scientifici (nella maggior parte dei casi, gli si attribuivano scoperte non sue). Ma era la sua umanità, pur se mitizzata, le sue frasi sulla vita, sul mondo e sull’universo a essere protagoniste di tweet, post di facebook e editoriali altisonanti.

Perché, anche se a volte lo dimenticavamo, Hawking aveva una vita al di fuori dei suoi successi accademici e delle affollate conferenze che dava. La sua prima moglie Jane lo lasciò nel 1990 dopo 25 anni perché non poteva più vivere circondata da adulatori e con un marito che viveva rinchiuso nel suo mondo astratto («l’idolo di Stephen era la dea Fisica», ha scritto nelle sue memorie, da cui è stato tratto il film del 2014). E che – tipico di molti uomini, e di molti famosi – non si interessava né di lei, né di crescere i loro tre figli. La sua seconda moglie, Elaine, una delle sue infermiere, venne accusata (e denunciata dalla figlia di Hawking) di averlo maltrattato e umiliato in più occasioni anche se lui si rifiutò sempre di confermarlo.

ECCOLO QUI IL GENIO, che lascia sia la moglie a crescere i figli e in più a prendersi cura di lui notte e giorno. Ecco l’uomo intelligentissimo, che si lascia picchiare e torturare per la vergogna di denunciare la propria fragilità ai suoi milioni di ammiratori. L’idolo delle masse, dietro cui però c’è una donna logorata dalla cura di un marito difficile, come accade anche a molte altre persone (quasi sempre donne) che si prendono cura dei malati. Il paziente, che accetta di dover trovare soluzioni creative e persino triangoli amorosi per risolvere un altro problema tabù (anche per lui stesso): quello della sessualità per le persone diversamente abili.
Ed è anche tutto questo che, alla scomparsa di questo incredibile personaggio, ci fa sentire tutti un po’ orfani. Perché, certo, ha rappresentato una fonte di ispirazione per chi si è dedicato alla ricerca e chi ne è rimasto solo affascinato, per chi deve combattere ogni giorno con malattie neurodegenerative o con l’handicap, e per chi in generale ambisce a superare i propri limiti. Ma soprattutto perché ci ha fatto sentire tutti un po’ più umani.