Se dei prodotti che acquistiamo potessimo sapere con certezza quanta acqua è stata utilizzata per farli, ma soprattutto che tipo di acqua (irrigua o piovana), da che falda (rinnovabile o meno), da che zona (arida o piovosa), se l’acqua è stata contaminata o meno, se è stata riciclata, potremmo scegliere a ragion veduta tra prodotti alternativi e finiremmo per premiare chi utilizza le risorse idriche con maggiore responsabilità. In un mondo che ha sempre più sete, dove il 9% della popolazione (più di 600 milioni di persone) non ha accesso all’acqua potabile, sarebbe un passo avanti.

In due parole, si chiama etichetta idrica. Esiste nelle intenzioni di molti studiosi, se ne discute a livello accademico, alcune aziende ci stanno lavorando, ma sono ancora pochissimi i prodotti che ce l’hanno. Arriveremo mai ad una certificazione dell’impronta idrica di un prodotto? Serve davvero? Come dovrebbe essere comunicata? Ci sarà spazio per un’altra etichetta nella selva di certificazioni ambientali?

«Sono molto favorevole alla trasparenza dei prodotti, di cui sappiamo sempre molto poco, e quindi vedo utile sviluppare etichette idriche che indichino chiaramente se la gestione dell’acqua utilizzata per produrre un qualsiasi prodotto risponde a criteri di sostenibilità oppure no – dice Arien Y. Hoekstra, professore all’Università di Twente (Olanda), tra i massimi esperti mondiali di acqua virtuale e impronta idrica. Se pensiamo al singolo consumatore, è fondamentale che l’etichetta comunichi in modo chiaro, semplice, univoco e permetta di fare scelte consapevoli tra prodotti equivalenti. Inoltre dovrebbero essere resi disponibili ulteriori dati per quei soggetti, penso alle organizzazioni della società civile o alle associazioni di produttori o consumatori, che insieme alle imprese potrebbero impegnarsi per ulteriori miglioramenti» .

L’etichetta idrica potrebbe assumere varie forme: un marchio o un simbolo sul prodotto, di immediata comprensione, che aiuti a capire, per esempio, tra 5 marche di pasta diverse, quali sono state prodotte con più attenzione alle risorse idriche. Il marchio potrebbe essere affiancato da un codice che rimanda a informazioni più analitiche, complesse e aggiornate disponibili su Internet. La certificazione potrebbe essere attribuita a livello aziendale, non necessariamente di prodotto.

È assodato che le certificazioni ambientali sono uno strumento che influenza e orienta le abitudini di acquisto e, di conseguenza, preme l’industria a investire per un uso più efficiente delle risorse. Se ne stanno accorgendo anche gli investitori finanziari, sempre più attenti all’importanza strategica delle risorse idriche e dei rischi legati alla scarsità.

Secondo Hoekstra, «l’etichetta idrica andrebbe affiancata ad altri indicatori ambientali o di equità del commercio, o ancora meglio, dovrebbe essere inglobata in un’unica etichetta di sostenibilità ambientale, perché siamo tutti d’accordo che la proliferazione delle etichette è costosa e inefficace. Peccato che non siamo ancora pronti per una etichettatura ambientale unica e condivisa a livello internazionale. Siamo in una fase di transizione in cui esistono inevitabilmenDa dove cominciare? Dai prodotti che hanno una maggiore impronta idrica, suggeriscono gli esperti, come cotone, riso, canna da zucchero e altri cibi e bevande.

A favore dell’etichetta idrica è anche Francesca Greco, PhD del Water Research Group del King’s College di Londra, che mette subito in chiaro che se vogliamo un’etichetta idrica serve una legge «altrimenti non ci arriveremo mai. Serve una legge che obblighi a fare una rendicontazione dell’acqua utilizzata nell’industria come in agricoltura: se non si fa così, non serve a niente».

Il calcolo dell’impronta idrica e la sua certificazione sono il primo passo verso la sua riduzione. Greco cita un’azienda di conserve alimentari, la Mutti che, in collaborazione con il Wwf, ha per prima calcolato la sua impronta idrica e ha successivamente lavorato a rendere più efficienti i suoi consumi arrivando a risparmiare l’1,5% dell’acqua «che di per sé è un buon risultato, ma certo non è significativo dal punto di vista del marketing, quindi aspettano di raggiungere ulteriori miglioramenti per dichiararlo in etichetta».

La buona notizia è che misurare l’impronta idrica dei prodotti agricoli è piuttosto semplice, i calcoli sono ormai standardizzati: ogni piccola industria o anche un coltivatore diretto può farlo, conferma la Greco «e sarebbe auspicabile che cominciassero a farlo soprattutto i produttori di qualità che si trovano a competere con chi invece mette sul mercato prodotti tossici, pieni di residui di fitofarmaci».
Meno semplice il calcolo dell’impronta idrica di prodotti più complessi, si pensi a un computer o agli abiti, costituiti da componenti forniti da una moltitudine di aziende che a loro volta dovrebbero dichiarare come utilizzano l’acqua: senza un obbligo di legge che imponga il circolare di queste informazioni, è improbabile che il circolo virtuoso si metta in moto. A meno che si creino filiere etiche che vogliono dimostrare la possibilità di un uso virtuoso dell’acqua.

«Da questo punto di vista è cruciale il ruolo delle grandi aziende alimentari e delle bevande – osserva Hoekstra – che, se volessero, avrebbero il potere e la capacità di fare pressione e di supportare gli agricoltori a ridurre la loro impronta idrica e a fornire calcoli dettagliati. Il supporto potrebbe essere di vario tipo: dalla presa di coscienza del problema ad investimenti nelle tecnologie di irrigazione».
Contro la possibilità concreta di arrivare a un’etichetta idrica condivisa ci sono anche le regole del libero commercio del Wto (World Trade Organization): «Se uno stato o un gruppo di stati si accordassero su un regolamento per l’etichettatura idrica – osserva Hoekstra – non è chiaro come le regole del Wto verrebbero interpretate in caso di disputa. Fino ad ora il Wto ha previsto che uno stato non possa imporre le sue regole ambientali ad un altro stato, ma alcuni commentatori ritengono che in altre circostanze sia possibile. In definitiva c’è ancora una certa ambiguità sul ruolo che gli standard ambientali nazionali possono esercitare sulle restrizioni al commercio internazionale. A maggior ragione, sarebbe auspicabile un ampio accordo internazionale, ma non è realistico pensare di raggiungerlo, almeno a breve. Alla fine, è solo il consumatore, nel negozio, che può scegliere o scartare un prodotto». Purché abbia le dovute informazioni.