Sorte infelice, in Italia, quella di La Fontaine: molte delle sue Favole godono di memorabile esemplarità; eppure dell’intera opera, in dodici libri, esistono soltanto due traduzioni ottocentesche: quella fortunata di Emilio De Marchi – del 1886, ancora ristampata in anni recenti (Rizzoli 1980, Einaudi 1995) – e quella dimenticata di Giosafatte Zappi, del 1888. Il capolavoro di uno dei classici del grand siècle francese da noi è un libro letto poco e male: nell’immaginario collettivo si confonde con le sue fonti (Esopo, Fedro, apologhi latini, arabi, umanistico-rinascimentali), o con le sue riscritture, quasi sempre confinate nel limbo della letteratura per l’infanzia; nel migliore dei casi, è riproposto in scelte parziali, come quella allestita, in prosa, da Vivian Lamarque nel 1997, e da poco tornata in libreria negli «Oscar Classici». Nella versione integrale, è sfigurato dai versi di De Marchi che, per scandire facili rime con un assiduo lavoro di forbici e rattoppi, perde allusività, ambivalenze, sprezzature, che fanno la grandezza dell’originale.

Buona la resa della duttilità
Colma perciò una vera lacuna il lavoro di Luca Pietromarchi, curatore di una nuova traduzione in versi dell’integralità (per ora) della prima parte dell’opera, quella apparsa nel 1668: La Fontaine, Favole (Libri I-VI), con testo a fronte (Marsilio, pp. 528, € 28,00). Fin dalla densa Introduzione, con un mimetismo che tradisce qualcosa di più di un’impeccabile competenza, tracimando volentieri nell’appassionata adesione esistenziale, Pietromarchi trova il tono giusto: ispirato a una misurata eleganza, e graziato da una sfuggente ironia. La traduzione riesce così a riprodurre lo stile mai corrivo, bensì «naturale, familiare, scorrevole e spiritoso», e «sempre libero di scavallare dal sublime al grottesco»; ed è capace di fondere, come La Fontaine, i poli opposti della manierata sostenutezza mondana e del risentito scarto idiosincratico. In versi a volte regolari, altre volte ipermetri o ipometri, con intermittente ricorso alla rima, la versione di Pietromarchi riesce a far propria quella «duttilità» che, anche da un punto di vista ideologico, è la cifra più profonda delle Favole.

La Fontaine racconta, in più o meno trasparente allegoria, come siamo, non chi siamo. Si disinteressa di ogni metafisica per riflettere con tollerante scetticismo, ma anche con dolente risentimento, sui comportamenti di un’umanità già di fatto secolarizzata, sui suoi (molti) vizi e sulle sue (scarse, minime, ma resistenti) virtù. Paradossalmente, pochi testi appaiono, nel profondo, meno assertivi di queste Favole, la cui dedica al Delfino, e la cui appartenenza a un genere didascalico, giustificano nondimeno la lettura pedagogica cui la scuola continua a destinarle.

In realtà, più che trasparenti insegnamenti di vita, il libro di La Fontaine contiene un’etica mondana che riassume e rinnova la saggezza tutta terrena della tradizione epicurea, e accoglie da Montaigne una lezione di relativismo e tolleranza. Per questo, da un testo all’altro, La Fontaine non teme di ripensare e correggere, o perfino contraddire, ogni troppo univoca conclusione: unico valore da difendere sempre e comunque essendo la vita (teste Mecenate: «Che io diventi impotente, / storpio, gottoso o monco, purché rimanga vivo»), minacciata dall’universale dominio della sopraffazione. Al punto che, una volta, nel Bambino e il Maestro, il distico conclusivo nega addirittura la legittimità della morale: «Ehi, amico, salvami la pelle: / la predica, la farai dopo».

Perciò ogni lettura antologica risulta fuorviante, riducendo appunto l’opera a coerente florilegio di exempla educativi. Se c’è, di norma, in ciascuna favola un intento educativo – conviene esser Formica piuttosto che Cicala; è inutile far valere la ragione contro la forza bruta: Il Lupo e l’Agnello; meglio una serena frugalità che una pericolosa abbondanza: Il Topo di città e il Topo di campagna; e così via –, l’ambivalenza s’impone non solo e non tanto perché la morale in alcuni casi è omessa, rimanendo così implicita o perfino incerta (e contravvenendo alle regole classiche del genere, che non prevedevano «la favola nuda e cruda»); e nemmeno perché ben poche volte le buone azioni sono ricompensate (tutto è, quello di La Fontaine, fuorché un mondo edificante); quanto perché l’insegnamento che il lettore può trarre dal singolo testo entra in risonanza, e non di rado in dissonanza, con quello suggerito dagli altri.

Per un verso, non c’è nelle Favole vizio più spregevole della vanità che induce a esibire un profilo menzognero: ne sono vittima l’insulsa Rana che si gonfia fino a esplodere per somigliare a un Bue; o il Corvo che vorrebbe, come l’Aquila, rapire una pecora; o, in modi diversi, il parodico avatar di Pigmalione che, innamorato della sua Gatta, ottiene dal Destino che sia trasformata in donna, salvo poi vederla balzare su un topo nel bel mezzo di un amplesso.

er un altro verso, questa pedagogia conservatrice – «Conosci i tuoi limiti», «Chi è lupo si comporti da lupo», e insomma «occorre accontentarsi della propria condizione» –, oggetto degli strali miopi di Rousseau, è smentita dalla frequente, esplicita adesione alla causa dei «piccoli», animali o uomini, dall’esaltazione partecipe delle loro minime, tenaci virtù, della loro capacità di scansare i colpi, come in Topi e Donnole in guerra. Così, in una favola bellissima e non fra le più note – L’Aquila e lo Scarabeo – con raro esempio di amicizia e solidarietà, un insetto vendica la morte del coniglio suo compare, distruggendo le uova del re degli uccelli. O ancora: se la vicenda di un altro insetto mostra che «tra i nemici / i piccoli sono spesso i più temibili» (Il Leone e il Moscerino), al contrario un’altra Rana, non obnubilata dalla vanità, ricorda che «in ogni tempo / i piccoli han patito le follie dei grandi» (I due Tori e la Rana). Gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Il conflitto, condizione naturale
In generale, la vanagloria di uno sconsiderato «amor proprio» è vizio non meno nefasto del suo contrario, l’invidia; e il punto d’equilibrio, la classica misura dell’honnête homme, si rivela utopica astrazione, assai più che concreto modello pedagogico. Può incarnarsi sulla pagina, nella perfezione dello stile; non nelle vicende reali.

Ovunque, infatti, nei loro temi le Favole squadernano la brutalità cieca e irredimibile dei rapporti di forza; e fanno del conflitto la condizione naturale di ogni esistenza: «La pace è una buona cosa», ma nell’universale malafede non c’è trattato che regga; sicché «ai malvagi occorre dare sempre guerra» (I Lupi e le Pecore). Al libro intero soggiace una disperata riflessione sul potere e sulla violenza, che smentisce una morale fra le più ireniche («Più riesce alla dolcezza che non alla violenza»), e si carica di precise, coraggiose allusioni alla politica contemporanea. A più riprese, il capolavoro di La Fontaine richiama segretamente la tragica vicenda del primo mecenate dell’autore, il potente Nicolas Fouquet, splendido signore di Vaux-le-Vicomte, imprigionato a vita da Luigi XIV per timore di venirne offuscato. Pochissimi ebbero il coraggio di supplicare il Re Sole affinché gli rendesse la libertà: fra loro, La Fontaine.

Anche per questo, è senza ombra di servilismo che l’etica mondana e tollerante, ma alla lettera resistenziale, delle sue Favole può eleggere a emblema non la Quercia ma la Canna («Mi piego, e non mi spezzo»); o perfino la natura ibrida del Pipistrello, che per fare «la linguaccia» ai prepotenti si dichiara di volta in volta volatile o topo, a seconda delle idiosincrasie dei suoi temibili interlocutori (Il Pipistrello e le due Donnole).

Una coscienza di classe
Non è opportunismo, come hanno ripetuto romantici e dottrinari: è duttile buon senso, lungimirante intelligenza strategica. Che infatti non impedisce di scoccare, dal fragile riparo della finzione letteraria, frecciate velenose addirittura all’indirizzo del monarca: «il mio nemico è sempre il padrone», dice al Vecchio l’Asino; «non più di un Sole / possiamo sopportare», esclamano le Rane. Se «re e dèi hanno sempre fatto / di ogni erba un sol fascio», come spiega il Gufo all’Aquila, La Fontaine si preoccupa al contrario della contingente esistenza del singolo; senza forzatura o anacronismo – Pietromarchi parla di una «coscienza di classe» del Terzo Stato che si rinsalda, contro i «colpi di coda del feudalesimo» – l’autore delle Favole ci può apparire pre-rivoluzionario precisamente perché riconosce come (unico) valore la vita di ogni individuo. In questo, non è isolato nel grand siècle, certo classicista e assolutista, ma meno compatto di quanto appaia nei manuali. E forse il dialogo implicito più significativo tessuto da La Fontaine è quello con La Rochefoucauld: le Favole, come le Massime, disegnano infatti precocemente, con lucida spietatezza, una antropologia della modernità che ancora, e del tutto, ci appartiene.