A sette anni e fino a quando ho cominciato a vivere disegnando, ho passato molto tempo con i matti. L’estate stavamo in una casa nelle Dolomiti, costruita da un piccolo gruppo di libertari che avevano conosciuto Franco Basaglia a Gorizia. Io non lo sapevo ancora, ma quello che stavamo facendo era la conseguenza di quello che Basaglia aveva immaginato e fatto: la chiusura dei manicomi, il ritorno dei matti nella comunità delle persone…»

A dodici anni ho passato un po’ di tempo con Vittorio. Era schizofrenico, alto quasi due metri, portava sempre un parka verde oliva, anche d’estate, con il cappuccio foderato di pelliccia bianca. Aveva la bocca grande e dei vecchi occhiali con la montatura nera, con le lenti molto spesse che gli facevano gli occhi grandi e acquosi, un po’ da pesce.

Vittorio era lentissimo, per via del Roipnol e di altre medicine che servivano a calmare gli effetti collaterali degli psicofarmaci, così oscillava molto lentamente, sembrava sempre sul punto di cadere, e invece no.

Una cosa che facevamo molto spesso era scrivere delle lettere a una certa ragazza che Vittorio aveva conosciuto, non mi ricordo il nome. Discutevamo minuziosamente tutti i passagi romantici e disinvolti, poi Vittorio scriveva, e ci voleva del tempo. Eravamo così concentrati che, a volte Vittorio si dimenticava di andare in bagno e quando gli veniva in mente si alzava ma a metà strada si bloccava, si voltava molto piano per guardarmi, ma io lo sapevo già, e lui apriva un sorriso larghissimo come una tenda, poi gli facevo la doccia.

Più tardi ho saputo che viveva in un istituto. C’era stata una battaglia di cuscini fra i matti, un cuscino era volato verso la finestra e Vittorio, che si trovava lì vicino, si era allungato per prenderlo ed è caduto dal terzo piano. Vittorio è morto cercando di salvare un cuscino.

Franco aveva i capelli, le sopraccilia e i peli del naso rossi arancio. Gli piaceva inventare continuamente delle ricette impossibili. Cominciava così, con un‘insalata o una pasta tradizionale con tutti gli ingredienti in ordine, ma a un certo punto si presentava un ospite indesiderato. Un cioccolatino boero al liquore di amarena.

Mi diceva, immaginati se a questo punto trovi nei bolliti una liquerizia gigante, e lì esplodeva una risata da cappellaio matto, diventava completamente rosso con i capelli arancio, risata virale che investiva tutti quelli che lo circondavano, tutti morti dal ridere senza neanche sapere perché.

Franco aveva una passione per l’elettricità. Passavamo dei pomeriggi sotto i tralicci, a sentire il ronzio dell’elettricità che passava nei cavi dell’alta tensione. Poi tornavamo a casa, ridendo.
Cesare aveva il collo più largo della testa e, anche se eravamo alti uguali e non era grasso, pesava almeno il doppio di me. Parlava poco, e non si capiva sempre cosa voleva dire esattamente. Teneva la gambe larghe, ben piantate, come un lottatore.

Quando ci siamo incontrati per la prima volta da soli, Cesare mi ha voluto assaggiare. Ci siamo seduti a tavola con gli altri quattro matti che erano in camera con noi, e Cesare, con velocità quasi finta, ha lanciato sei bicchieri e sei piatti facendoli scoppiare contro il muro di fronte.

Gli altri si erano spaventati molto, e anch’io. Ma alla sera è successo qualcosa, Cesare si è sdraiato nel letto a castello e ha tirato fuori dalla tasca quella cosa che tutti abbiamo imparato a chiamare come la chiamava lui: larmonichina.

Si è infilato questa minuscola armonica tra i denti e le labbra, come una dentiera, lo ha fatto ogni sera, ha chiuso gli occhi e ha cominciato a dondolare la testa a destra e a sinistra, con questo suono dolcissimo a ondate, sempre più lento fino a che si addormentava, passava qualche minuto, si risvegliava e dondolava ancora tre o quattro volte, il suono come un filo sottile lontanissimo e poi dormivamo tutti.

Con Elio mi sembra che ci siamo capiti subito. Era molto grosso, camminava come un orso, difatti aveva le clarck tutte sfondate. Dormiva pochissimo e andava in giro a cercare mozziconi nei portacenere. Un pomeriggio giocavamo a pallone con tutti gli altri volontari e i matti. Elio cercava i mozziconi a bordo campo, avevamo fatto di tutto per farlo giocare, poi la palla è uscita lentamente, gli è arrivata sulle Clark, lui l’ha fatta salire sul ginocchio e ha cominciato a palleggiare. Poi qualcuno mi ha detto che Elio era stato nelle giovanili del Bologna.

Elio era uno degli ultimi matti che vivevano nel manicomio di Budrio, saranno stati sei o sette. Un fine settimana eravamo stati in campagna e la domenica sera lo avevo accompagnato a Budrio. Il manicomio era immenso e tutto vuoto, le pareti erano dipinte con uno smalto verdolino, erano le sei del pomeriggio. Sul comodino di fianco al letto di Elio c’era un piatto di zuppa marrone, non ho visto un cucchiaio o il tovagliolo. In mezzo al piatto, affondata fino a metà, c‘era una mela gialla.

Quello che più mi incanta in molti matti che ho conosciuto, credo sia questa loro capacitá di inventarsi il linguaggio, di inventarsi dei mondi, di essere sempre nell’atto, di praticare costantemente la capacità di stupirsi e di perdersi nell’esplorazione delle cose, prolungando all’infinito lo stato di grazia e la bellezza che è negli animali e nell’infanzia.

 

LA BIOGRAFIA. Stefano Ricci, disegnatore e artista grafico di fama internazionale, dal 1986 collabora con la stampa periodica e l’editoria in Italia e all’estero («Frigidaire», «Per Lui», «Dolce vita», «Avvenimenti», «Linea d’ombra», «Il manifesto», «Esquire», Panorama, Téléma, «Extra», «Glamour», «HP», «Follow me», «Libération», «Les Inrockuptibles», «Internazionale», «Alias», «Lo Straniero», «L’Humanité», «Bang», la Repubblica, Mondadori, Rizzoli, Einaudi ed altri). Per i fumetti, oltre ad alcune storie brevi, ha pubblicato «Tufo», su sceneggiatura di Philippe de Pierpont, selezionato nel 1997 per il XXV Festival di Angoulême.