«Ho vissuto abbastanza tra gli uomini per sapere che la solitudine è come un cane rabbioso che abbaia senza sosta nella lunga notte del dolore». Storia d’amore e odio, di tradimento e vendetta, Chigozie Obioma (nato in Nigeria, studente a Cipro e ora residente negli Stati Uniti, finalista per la seconda volta al Man Booker Prize) affronta nel suo secondo romanzo Un’orchestra di piccole voci (Bompiani, pp. 530, euro 24) il dramma intimo e personale della perdita di tutto ciò che un uomo possiede, oltre che di se stesso, elevandolo al livello del mito e facendone un’epopea ancestrale di perdizione e conseguente desiderio di riscatto e redenzione.

Già conosciuto e apprezzato dal pubblico internazionale per I pescatori (che tracciava la parabola discendente di una famiglia sullo sfondo della Nigeria degli anni Novanta del secolo scorso), qui l’autore si focalizza a inizio millennio sul personaggio di Nonso, giovane di umile origine e scarsa cultura che si innamora di Ndali, dopo averle salvato la vita, e compie una lotta titanica contro le forze avverse che tentano di sottrargliela.

ANIMATI DA UN AMORE apparentemente invincibile e pronto a sbaragliare ogni ostacolo, i due vengono osteggiati dalla famiglia della ragazza, che per differenze di ceto e pregiudizi patriarcali in una nazione perennemente in bilico tra modernità e tradizione, ne contrastano l’unione, costringendo l’ancora illuso protagonista ad un percorso accidentato, a tratti oscuro e senza speranza. Pronto a tutto pur di avverare la promessa di felicità che la donna rappresenta per lui, Nonso vende quanto ha ereditato da suo padre e, lasciata la terra degli avi e degli affetti, si imbarca per una terra incognita, affidandosi però a cattivi consiglieri e venendone truffato.

In controluce, dal testo emergono istanze anticoloniali, la denuncia di terre depredate e culture distrutte. «La magia dell’uomo bianco ha capovolto la saggezza dei padri», affermerà la voce narrante, che dalla parte di tutti i defraudati e diseredati del suo popolo e continente sosterrà: «È come un canto arrangiato, di quelli che si intonano ai funerali. Come un coro. E quello che stanno cantando è un canto di dolore è vero quello che diceva tuo padre. È un’orchestra di piccole voci», parafrasando così il proverbio posto a epigrafe del volume che recita. «Finché le prede non produrranno una loro versione della favola, i predatori saranno sempre gli eroi nelle storie di caccia».

A CONSOLIDARE IL LEGAME spirituale con la cosmogonia igbo, la narrazione in prima persona è affidata al chi del protagonista, spirito custode in connessione diretta e continuo dialogo con gli antenati e le divinità che ne popolano l’olimpo, difensore e guida che soffre del non poter trattenere il suo padrone dal compiere scelte o azioni sbagliate, né ammonirlo dal mettersi in situazioni di pericolo che minacciano di condurlo verso la distruzione, perché il suo primo compito è di «lasciare l’uomo essere uomo», affermando impotente che «il rimpianto è il veleno degli spiriti custodi».

La vicenda assume così le connotazioni di una ricerca tragica, rifacendosi da un lato all’Odissea (che l’autore dice di aver divorato in biblioteca in soli tre mesi a quattordici anni), dall’altro alla letteratura dei padri, che hanno portato la nazione e il continente alla consapevolezza e all’autodeterminazione. Testi come Il crollo e La freccia di Dio di Chinua Achebe, ma anche come le opere della generazione di mezzo, tra cui l’immaginifico Ben Okri in La via della fame e Chris Abani con Graceland.