Può una città che praticamente dalle sue origini fino ad appena trent’anni fa si è sviluppata attorno a case abusive e vere e proprie baraccopoli andare in tilt per qualche decina di rom? Sembra questo lo scenario: le periferie romane, che così tante ne hanno viste e che da tante differenze sono attraversate, turbate dalla presenza totale di poco più di 4 mila rom e sinti, per la maggioranza bambini e minori, che vivono in sedici insediamenti riconosciuti e dal girovagare di quelli che si arrangiano in piccole baraccopoli informali negli interstizi della metropoli.

A GUARDARE L’ORIGINE e l’evolversi di questa paradossale emergenza perenne, ci si accorge che lo stato di allerta sembra alimentato e perpetrato dalle politiche messe in campo ormai da tempo. Chi si aspettava che le cose sarebbero cambiate è rimasto deluso. Tra un mese il Piano Rom varato dalla giunta Raggi compie due anni. La sindaca che appena eletta assicurava ai suoi collaboratori più fidati che sulle baraccopoli avrebbe avuto il pugno di ferro aveva delineato un percorso che prometteva essere finanziato «interamente dall’Unione europea». I quattrini fin dall’inizio non sembravano sufficienti e rispuntavano i quasi 4 milioni che Raggi aveva ereditato dalla giunta di Ignazio Marino. Eppure Beppe Grillo, all’epoca ancora vicino alle sorti della giunta romana, aveva definito quel Piano «un capolavoro».

SOLO CHE CI SI È ACCORTI presto che non bastava finanziare rimpatri o promettere 800 euro di contributo a nucleo familiare per incentivare l’abbandono dei campi: per chi viene da uno slum non è facile trovare immobili in affitto.
Quando il M5S va al governo con la Lega, poi, pare sbocciare un’intesa tra Virginia Raggi e Matteo Salvini in nome della stretta securitaria.

DA QUESTO SODALIZIO arriva lo sgombero di Camping River, l’insediamento che funziona meno peggio di tutti ma che il ministro e la sindaca immolano al nuovo corso. Raggi parla di un successo ma si accorge presto che l’esito è disastroso: in mezzo c’è anche una condanna della Corte per i diritti umani di Strasburgo oltre che la dispersione di almeno 250 persone in giro per la città. I bambini di Camping River, dove l’inserimento scolastico funzionava, smettono di avere una casa e un’istruzione.
Lo stesso fenomeno si verifica al campo della Barbuta, al confine sudest tra Roma e Ciampino. La road map prevede che chiuda entro il 31 dicembre dell’anno prossimo ma nel frattempo, in pochissimi dei circa 500 residenti hanno trovato soluzioni alternative. Intanto, anche qui i bambini iscritti alle scuole dell’obbligo sono diminuiti vertiginosamente. Tutto deriva da Mafia Capitale, e dalla decisione della giunta Marino di sospendere il servizio di scolarizzazione, affidato ad alcune cooperative e finito sotto il radar dell’Agenzia anticorruzione.

EPPURE RAGGI si preoccupa di riesumare alcuni degli strumenti del recente passato. Ecco che dunque nel maggio scorso compare una gara per «reperimento e gestione di una struttura di accoglienza in favore di persone rom», che grava per 1,2 milioni di euro sulle casse comunali. Il ritorno all’era Alemanno attira un’unica offerta: quella di una cooperativa vicina al Gruppo La Cascina, legato storicamente al centrodestra e a Comunione e liberazione. Da qui si arriva all’assegnazione dell’appalto e alla trasformazione dell’ex clinica di Torre Maura nel «centro di raccolta rom» finito al centro delle proteste. Qui finiscono i rom costretti a lasciare una vecchia struttura situata ai margini della capitale. Altri come loro da anni vengono colpiti dallo stillicidio di sgomberi di baraccopoli informali e micro-insediamenti, fuori dai riflettori del fallimentare Piano Rom.

VA DETTO che alcuni ce l’hanno fatta: sono i pochi riusciti a inserirsi nella normale graduatoria delle case popolari, dissimulando la provenienza e abbandonando l’arcipelago concentrazionario dei campi. Un segnale spontaneo e sotterraneo, che ricorda il passaggio dalle baracche agli appartamenti di decine di migliaia di romani alla fine del secolo scorso e che è stato gestito nei mesi scorsi quasi alla chetichella da gruppi di volontari. È una luce fioca, che dovrebbe servire a segnalare all’amministrazione come imboccare la giusta strada per superare davvero i campi rom.