L’omelette era fra le più cattive che avesse mai assaggiato e la casa di una sciatteria che provocava un disagio imbarazzante. Ma per Chiyoko, quell’uovo cucinato per cena da Izumi, appositamente per lei, sarà l’inizio di una nuova vita. Una cesura affettiva con il passato e l’incontro con l’armonia dei sentimenti, capace di spazzare via idee suicide.
La locanda degli amori diversi (Neri Pozza, traduzione Gianluca Coci, pp. 315, euro 17) è l’ultimo romanzo della scrittrice giapponese 43enne Ito Ogawa (che in Italia ha esordito con Il ristorante dell’amore ritrovato, da cui è stato tratto un film nel 2010) e ha l’andamento di una favola. I personaggi camminano tutti insieme a qualche palmo da terra. Le due innamorate, una volta uscite dai rispettivi tunnel depressivi, formeranno una famiglia arcobaleno con i loro due figli, rifugiandosi in un paese sperduto, ribattezzato esoticamente Machu Picchu; i pargoli vivranno un’esperienza unica, con due mamme pronte a rimboccarsi le maniche, cullati dall’impermanenza delle stagioni naturali. Nel libro, ascoltiamo la voce di ogni protagonista della storia, fino a quando la realtà entrerà prepontemente in scena, lasciando dietro di sé una scia di sogni e dolori.
Ito Ogawa sarà ospite oggi a Milano per Bookcity, dove incontrerà il suo pubblico presso Base (ore 16.30), dialogando con Viola Di Grado.

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Nel suo libro, l’amore «diverso» trova una possibile via di uscita fuori dalla città, in un posto isolato, dagli inverni freddi e chiuso simbolicamente da catene montuose. È ancora così difficile parlare di omosessualità in Giappone?
Per le coppie omosessuali giapponesi è certamente più facile vivere nelle grandi città come Tokyo, dove vige più libertà, anche se ancora oggi i problemi persistono. Io invece ho ambientato la storia del mio ultimo romanzo in un luogo lontano, tra le montagne, perché ho immaginato sia più semplice economicamente vivere distanti dalla metropoli. È anche meno complicato educare i bambini. Spazi piccoli e lontani creano condizioni di maggiore sicurezza per le famiglie omosessuali; ovviamente, dal punto di vista delle relazioni, a Tokyo è più agevole rapportarsi con gli altri, ma per quanto riguarda le dinamiche della coppia stessa un posto appartato e non affollato permette una migliore espressione delle proprie emozioni.

Anche qui, come avveniva nei precedenti «Il ristorante dell’amore ritrovato» e «La cena degli addii», la locanda arcobaleno di Izumi e Chiyoko affida al cibo le cure dell’anima… È qualcosa che ha a che fare con le antiche tradizioni giapponesi o con la sua famiglia di origine?
Il cibo ha una grande importanza, è qualcosa di fondamentale che attraversa le nostre vite. È una sorta di collante che aiuta le persone, soprattutto i membri della stessa famiglia, ad approfondire il loro rapporto reciproco. Parlo moltissimo di cibo nei miei libri perché ritengo che stimoli lo sviluppo delle relazioni, le cementa. Più si riesce a mangiare insieme dedicando tempo a quella attività, più si diventa intimi, aumenta la conoscenza l’uno dell’altro e si può raggiungere una certa felicità. La tradizione giapponese ha la sua rilevanza, ma bisogna fare una distinzione tra ciò che si consuma a tavola durante le cerimonie e i piatti che si preparano quotidianamente. Nel primo caso, c’è un intenso legame con le divinità shintoiste e con i nostri antenati, nel secondo a essere centrale rimane la famiglia.

Come mai ha scelto Berlino come città d’elezione?
Vado spesso e per lunghi periodi, quasi ogni anno, a Berlino. Per me rappresenta la libertà. Mi guardo intorno e percepisco che, a differenza del Giappone, i tedeschi sono più aperti, anche le coppie omosessuali non hanno necessità di nascondersi. È una città ad alta vivibilità, dove c’è un equilibrio che definirei perfetto tra regole e libertà individuale, un’armonia ideale. Questo senso di autodeterminazione è forse dovuto alla passata esistenza del muro che divideva la città e faceva sentire gli abitanti prigionieri. Ora, i cittadini tedeschi avvertono con grande forza la loro riconquistata sovranità e non lasciano fuori neanche gli stranieri come me.

Come autrice, lei propone anche storie per i lettori più piccoli. Che criteri applica per differenziare le due tipologie di scritture?
Non ho mai scritto libri prettamente per bambini; casomai per adolescenti, individui che si trovano nel periodo di passaggio tra gioventù e vita adulta. È un momento fondamentale dell’esistenza. I miei romanzi non prevedono divisioni nette. Principalmente, ciò che narro può essere letto dagli adulti ma compreso pure dai ragazzi. E, viceversa, le storie per teenagers possono contenere un messaggio valido anche per i più «grandi».

Ci sono autori/autrici a cui si sente particolarmente vicina, letterariamente?
Ho cominciato a leggere molto quando frequentavo le scuole medie e poi, naturalmente, ho continuato al liceo. Mi interessavano soprattutto le fiabe, le storie per l’infanzia, gli scrittori giapponesi del passato. Leggevo poi libri di filosofia, brani facilitati di pensatori, anche occidentali. Fra le autrici che ho amato di più c’è Banana Yoshimoto, ma non potrei sostenere di essere stata influenzata da lei. A ispirarmi sono state certamente più le fiabe.

Come si dedica alla creazione di un romanzo? Dove raccoglie le sue storie?
Sono assai metodica nel mio lavoro di scrittura, lo faccio solo al mattino, fino all’ora di pranzo. Mi sveglio presto, bevo il mio tè, leggo i giornali e, infine, inizio a scrivere: il mio limite è quando comincio ad avere fame. Allora mi alzo, mi preparo da mangiare o vado fuori e smetto di scrivere. Nel pomeriggio non riprendo mai, mi dedico ad altro, letture e impegni quotidiani. Quando scrivo, in principio tratteggio il romanzo in maniera semplice. Cerco di delineare la trama, poi immagino alcuni colori e li associo a quella trama. Unisco la storia dei colori alla mia. Se la combinazione tra questi elementi risulta soddisfacente, allora vado avanti, non fisso altri punti prima di iniziare. Dopo, è importante collegare la costellazione originaria. Improvviso molto.
Specificando meglio l’idea dei colori: per esempio, nel caso della Locanda degli amori diversi ho immaginato subito un arcobaleno e il mio obiettivo nello scrivere era arrivare alla fine del racconto mostrandolo: è quello che i protagonisti riescono artificialmente a realizzare. Desideravo offrire ai lettori l’impressione di vedere in maniera vivida questo arcobaleno, man mano lo inseguivo con lo sviluppo della storia. Spero di esserci riuscita.