Il conflitto sociale tra braccianti e agrari che imperversò in Puglia negli anni Quaranta fu sanguinoso e devastante. In particolare, i fatti accaduti dal ‘43 al ‘48 assunsero i tratti di una vera e propria guerra civile che interessava variamente tutto il Sud. Grave povertà, disoccupazione irrimediabile e smarrimento politico, erano i tratti che hanno distinto le vite di chi, bracciante o reduce, abitava quelle terre arse dall’ignavia e dall’abbandono. Guardati dalla mia fame (Nottetempo, pp. 207, euro 15), il recente libro scritto a quattro mani da Luciana Castellina e Milena Agus, indaga la storia drammatica di quegli anni, concentrandosi su una vicenda misconosciuta: il linciaggio delle sorelle Porro da parte di un centinaio di persone, uomini e donne, riuniti nella piazza del Municipio di Andria il 7 marzo 1946.

Un’ordinaria quotidianeità

Quel pomeriggio, dopo giornate convulse e di trattative sindacali difficili, si sarebbe dovuta festeggiare la tregua frutto di una mediazione tra braccianti e agrari. Per questo motivo Giuseppe Di Vittorio, bracciante di Cerignola diventato segretario della Cgil, avrebbe dovuto tenere un comizio proprio nella piazza cittadina. D’improvviso, uno sparo rivolto verso la piazza desta l’attenzione della folla. Apparentemente non sembrano esserci dubbi: proviene dal palazzo dei Porro, una ricca famiglia di agrari perquisiti dai braccianti proprio un paio di giorni prima alla ricerca di armi. Mentre Milena Agus racconta, tra realtà e immaginazione, la vicenda di Luisa, Vincenza, Stefania e Carolina Porro, Luciana Castellina inquadra il fatto nel contesto storico-politico a loro contemporaneo. Si dipana così un libro notevole, a due voci e con altrettanti registri: narrativo e saggistico. Si fa la conoscenza delle quattro sorelle attraverso le visite di un’amica inquieta che le osserva e le rende vive. Così come, alla fine della lettura, appariranno più vicine le altre esistenze, quelle dei senza nome di tante e tanti braccianti rastrellati, processati e poi condannati nonostante fosse arduo indicare un’unica responsabilità penale.

Quelli descritti nel libro sono dunque due punti di vista in cui le autrici, come sempre sapienti e precise, si misurano con una vicenda che di esatto non ha proprio niente tranne la fame. Una fame originaria di giustizia e di libertà che deborda nel suo contrario, percorrendo non solo i fatti di Andria ma i secoli e la storia che si tingono di sangue. Che sia quello degli oppressi e degli oppressori cambia la qualità dell’efferatezza? Forse no. Quelle sorelle così barbaramente trucidate, per esempio, avevano come unica colpa l’inconsapevolezza che le rendeva avulse da ciò che le circondava. C’è chi giura che lo sparo provenisse proprio dalla loro abitazione, seppure sia difficile crederlo visto che le perquisizioni dei giorni precedenti non avevano riscontrato nessun arsenale né tantomeno soggetti pericolosi.

Luisa e Carolina, le due che soccombono, così come Stefania e Vincenza, sopravvissute alla violenza, trascorrevano la loro quotidianità tra faccende domestiche e passatempi trascurabili dalla grande storia. Ricamavano, conversavano e si occupavano solo di una vita, la loro, facilitata dall’inerzia del proprio status di agrarie. Del resto poco si curavano, almeno così sembra. La folla inferocita le sceglie come vittime sacrificali di uno scontro al quale erano estranee. La loro indifferenza si mescola alla mancanza di coraggio ed è motivo di costanti confronti con l’amica che va a trovarle, anche quando «non sapeva dove andarsi a cacciare. In un altro mondo tutto diverso. Ecco dove voleva andare». Ma un mondo diverso non esisteva, era lì inchiodato tra la sazietà e la voracità degli uni così come degli altri. «È la fame che si fa violenza e chiede vendetta». La richiesta appare tuttavia più verticale di così. Il pasto negato è un occhio per occhio in cui ci si legittima a digerire la propria collera con il farmaco della vendetta; configurando una furia difficile da analizzare se non a conti fatti.

Innocenti o colpevoli?

L’operazione messa in essere da Castellina e Agus appare ancor più interessante, proprio perché non offre giudizi o perdoni bensì la possibilità di sezionare un conflitto sociale immedicabile chiedendoci di essere all’altezza, di poterne stare al cospetto. L’altro elemento che emerge è certamente l’opportunità di ascoltare per la prima volta le voci di chi è stato rimasticato dalla storia, sia nella piazza che nei palazzi, tanto più che gli stessi giornali di quei giorni non diedero alcun risalto all’accaduto. Un effetto collaterale come tanti altri nella carneficina di quei mesi? Allora non si troveranno retoriche sulla non-violenza né sull’annoso dualismo tra innocenti e colpevoli. Il conflitto resta aperto invece e con grande maestria sia Castellina che Agus ne sanno puntellare l’incandescenza in una doppia trama, necessaria quanto complessa.

Alla fine della lettura permangono molte domande. Una tra tutte riecheggia nella mente: «Nella catastrofe, se si vuole che il mondo stia in piedi, bisogna avere la forza di rivoltarlo come un guanto. Sì o no?» Certo, se però l’unico modo di darsi giustizia significa violenza e distruzione dell’altro da sé verrebbe da chiedersi con chi si intenda abitarlo il mondo. A questo punto è utile ritornare sulle parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish: «Guardati…/ Guardati/ Dalla mia fame/ E dalla mia ira». Luciana Castellina e Milena Agus l’hanno affrontata con coraggio