Ci sono film che, mentre te ne stai dimentico, rimuginante a ottemperare alle intimazioni del giorno, a sussistere d’inerzia nei gangli delle città, arrivano all’improvviso, per una strana congiuntura atmosferica, per via del tempo che trama l’epifania impensata delle immagini, quelle dialettiche di Benjamin condannate a rutilare nello spazio-tempo, in gorghi astrali, nuvolaglie, volute di vento o di fumo venuto da uno scantinato di un qualche ospedale Tailandese, e a presentarsi ogni tanto davanti ai nostri occhi, provvidenziali, esatti, come fossero dei cromosomi che completino un Dna fino ad allora dimidiato, dando così senso al mondo, in un momento. Se negli ultimi tempi erano stati capolavori come First Reformed o Martin Eden, spazi di conforto, di confessione, proprio di reintegrazione con la necessità animale della visione, quest’anno è stata Undine di Christian Petzold, passata al Festival di Berlino (dove Paula Beer è stata premiata come miglior attrice) poco prima che arrivasse la pandemia con il suo corollario di retorica. M’è rimasta negli occhi, latente, a tratti affievolita dall’andirivieni mnemonico, per tutto il tempo in cui me ne sono stato chiuso in casa a ruminare: la rilasciavo nei dedali della mente molto lentamente, come una morfina o un oppio che ti stampi sul viso un ghigno di piacere in attesa di poter rivedere le sale.

POEMA D’ACQUA, poesia lacustre, Undine sarà nelle sale italiane a partire dal 24 settembre e in anteprima alla Triennale di Milano per la Movie Week mercoledì 16 su iniziativa di Filmmaker Festival dopo l’uscita in Germania che ha richiamato in sala moltitudini, segno che la rinascita, una vera rinascita, non può che passare per quel rito inalienabile che consiste nel ritrovarsi al cinema a condividere storie, estetiche; e quindi passa per la poesia, per le immagini, la musica. In questo caso la versione per piano dell’adagio (secondo movimento) tratto dal concerto in re minore BWV 974 di Bach eseguita da Víkingur Ólafson, che impregna il film di un languore romantico, in eco del Werther, gli dà il tempo, dà il tempo a un amore espresso nel senso dell’eternità e dell’oblio, lo diluisce in lacrima, in traccia acquea sul volto per tutta la sua durata, ammesso che finisca Undine, e che non continui nello sguardo dello spettatore anche dopo l’ultimo titolo di coda, mentre si cerchi invano di spiegarne la fluidità dei segni, di ricostruirne l’ordine cronologico.

QUELLO DI PETZOLD, soprattutto all’altezza dei suoi due ultimi film, è un cinema in cui meno si comprende più si sa, scoprendosi durante la visione in balia di suggestioni, di ricordi, presentimenti, tanto da farmi pensare a Cees Noteboom quando a proposito della poesia scrive «qualcosa mi parlava e io sapevo cosa mi veniva detto anche senza capirlo». Così è per Undine: si sente, si sa – senza capirla –, si intravede una sapienza superiore che regna sui destini dei personaggi, come nel Kieslowski della Doppia vita di Veronica o della trilogia francese, qualcosa che tiene avvinti il segno e il simbolo posti a distanze siderali l’uno dall’altro, ricordando Goethe e che «tutto l’esistente è un simbolo».

Così ci si ritrova all’improvviso ricongiunti a meccanismi mitici (in cui s’inscrive l’ondina, figura mitologica della mitteleuropa, al centro delle riscritture romantiche), s-legati a inferenze trascendenti, all’origine della creazione artistica e dell’avventura umana (inventata in continuazione), sottratta così all’ingiunzione della diacronia e resa eterna, ridondante in virtù di quella creazione, di quell’invenzione. Come già nella Donna dello scrittore Petzold esclude la possibilità di un tempo lineare in favore di un’atemporalità, di un sincronismo, un riciclo continuo che riguarda la mitopoiesi piuttosto che il racconto: è una durata bergsoniana, non più quantificabile, stimabile e se mai qualificabile nei termini del flutto, dell’apnea, di un gocciolio che sta già nelle prime note di Bach e muove, fa grondare i personaggi così alla mercé del sentimento dell’acqua. Cioè di un’antifona, una poetica adibita a liquefare (al limite a liquidare) la continuità narrativa e riducendo le identità immerse in questo lago di tempo, a qualcosa di provvisorio, un’ondata d’acqua, un’ondina che lascia pozzanghere ed esili specchi pronti a tramutarsi in gore, in umore sul lastricato, sul muro.

IL FILM è il riflesso scorto tra quei franti specchi, tra i vetri sparsi sul pavimento di Caffè; riflesso di qualcos’altro, forse anche di un plastico che riproduce la città di Berlino (della quale si dice sia sorta a partire da uno stagno) e di un acquario in cui sta in apnea un modellino di sommozzatore. Ecco perché non è possibile distinguere, possedere le immagini di Undine, chiudere nell’ambito del visto, del già visto le forme e il racconto così labili, acquei, così fugaci di quest’opera straordinaria; e orientarvisi se non per smarrimenti e illuminazioni, che sono l’istigazione a immaginare cioè a comprovare Undine in piena vertigine, posta alla base di ogni sequenza; sono l’invito a creare corrispondenze tra parti diverse, zone lontane del film, sapendo in anticipo di ottenere aporie, smarrimenti, sublimi incongruenze. Si tratta di un cinema che sovrappone e a tratti confuta la logica dei piani e dei tempi, per cui si fondono il mimetico con il mitico, il presente con il passato, il sogno con il ricordo, in un’apnea, una ridda acquatica di visioni, entro cui fare i conti con la perdita e con l’assenza fattasi spazio.