Cosa sono stati la strage compiuta nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano e gli attentati di Roma, all’Altare della Patria ed al Museo del Risorgimento, del 12 dicembre 1969 che causarono nelle due principali città del Paese 17 morti e 106 feriti?

La strage di Piazza Fontana fu un’operazione paramilitare contro civili inermi in tempo di pace, non rivendicata dagli esecutori materiali (i gruppi neofascisti sostenuti, protetti e difesi dagli apparati di forza dello Stato), realizzata con l’intento di attribuire la responsabilità all’avversario politico (la sinistra politica e sindacale, parlamentare ed extraparlamentare) e finalizzata a provocare una reazione psicologica ad esso contraria nell’opinione pubblica ed una involuzione di natura autoritaria del nostro sistema costituzionale.

In un Paese come l’Italia in cui in ogni legislatura viene istituito un organo parlamentare chiamato «commissione stragi», a rappresentare visivamente la misura della drammaticità e dell’anomalia della storia della nostra Repubblica, l’annuncio del Presidente della Camera Roberto Fico di voler procedere ad una desecretazione totale delle carte e dei documenti relativi agli anni del terrorismo non può che essere accolto con favore, considerate le ancora numerose mancanze documentali ed il sostanziale silenzio mantenuto per decenni dalle classi dirigenti dell’epoca.

Tuttavia a distanza di cinquant’anni si possono affermare delle verità solide su quei fatti, nonostante manchino sul piano storico ancora molta documentazione e su quello giuridico delle sentenze più ampie rispetto ai neofascisti (oltre ai reo confessi o a quelli individuati ma non più perseguibili) e agli uomini dello Stato che ne consentirono la fuga all’estero e l’impunità.

I gruppi anarchici accusati dalla polizia del massacro erano in realtà del tutto estranei ai fatti. Innocente era il ferroviere Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto e interrogato in Questura a Milano e morto dopo un «volo» dal quarto piano dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi.

L’attentato terroristico realizzato dal gruppo neofascista di Ordine Nuovo rappresentò il culmine di una serie continuata di azioni eversive finalizzate al raggiungimento di tre obiettivi fondamentali: trasferire dal terreno politico-sociale a quello paramilitare i termini del conflitto sviluppatosi in Italia nel biennio 1968-1969; uccidere civili inermi per realizzare un’operazione psicologica di massa di segno regressivo nella società e nelle istituzioni; determinare la rottura dell’ordine pubblico attraverso la pratica del terrorismo disarticolando così il processo di ridefinizione dei rapporti tra Stato e società secondo lo sviluppo storico fisiologico della democrazia conflittuale.

L’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa si configurò proprio nel rapporto torsivo tra ingresso della democrazia conflittuale nella sfera pubblica e risposta armata di organismi politici, paramilitari e militari. Milioni di ore di sciopero, manifestazioni, blocchi stradali, occupazioni di università e scuole, scioperi a «gatto selvaggio» si ebbero in tutti i Paesi europei a capitalismo maturo e democrazia liberale. In nessuno di questi Stati lo stragismo si manifestò come fenomeno di lunga durata e di opposizione diretta a tali processi.

Il 1969 rappresenta una data periodizzante della Repubblica in quanto evidenzia la divaricazione tra le istanze di trasformazione, non sempre per forza positive e naturalmente caratterizzate da limiti e contraddizioni, e le tendenze restauratrici, inclini ad ovviare alle insufficienze del tempo storico presente con l’ancoraggio al passato.

Nel frangente compreso tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta si esprime la sincronia del ’69 operaio con il ’68 studentesco; si chiude la fase espansiva del ciclo storico capitalista del ventennio post-bellico; si esaurisce la formula politica del centro-sinistra nel quadro di un sistema dei partiti bloccato e senza alternative di governo; si determinano le caratteristiche dell’anomalia italiana del decennio ’68-’78; si esplicita un diretto intervento paramilitare contro civili inermi, la strage di Piazza Fontana, che non solo si colloca all’interno del conflitto sociale di un Paese democratico ma apre una «stagione delle stragi» non limitata al fatto episodico.

L’Italia di fine anni Sessanta venne attraversata da una crisi che investì in modo diretto almeno quattro ambiti strategici della struttura istituzionale: le Forze Armate (scosse da scandali e aspri conflitti interni); il sistema politico (caratterizzato dalla rottura dell’unità della dc, dalla scissione socialista e dalla radiazione del gruppo de «Il Manifesto» dal Pci); l’ordine pubblico (rotto nel corso di tutto il 1969 dalla pratica stragista); le relazioni industriali. Quest’ultimo ambito fu caratterizzato dal più grande movimento unitario di lotta operaia e sindacale della storia della Repubblica che ebbe la forza di avviare il processo di transizione dal modello di «integrazione negativa» della classe lavoratrice, che era stato alla base del cosiddetto «boom economico», all’approdo in una più compiuta democrazia industriale sancito dall’approvazione dello Statuto dei lavoratori come espressione complessiva dei contenuti dell’«autunno caldo».

Una riforma sociale e politica di valore storico che «si proponeva di proteggere – ricorda un volume curato da Stefano Rodotà – non più il «chiunque» dei codici, non più il «cittadino», ma un ceto sociale determinato, la classe lavoratrice, contro un altro, quella dei datori di lavoro, dei capitalisti. Una legge, dunque, che spazzava via l’ideologia della neutralità».

Attraversando rotture e continuità; torsioni e trasformazioni; crisi e modernità, è questo il Paese che giunge al 12 dicembre 1969, giorno in cui il Senato approva in prima lettura lo Statuto dei lavoratori mentre a Milano si prepara la strage di Piazza Fontana. Il Giano bifronte della storia nazionale.