Di Julian Assange si conosce l’abilità tecnica e che è in rotta di collisione con alcuni stati – gli Stati Uniti, l’Australia, il Regno Unito – perché i loro governi sono il simbolo di una ragion di stato che, in nome della sicurezza nazionale, esercita un controllo sulla vita dei cittadini. È inoltre riconosciuto come il guru di Wikileaks, il sito di controinformazione che ha pubblicato moltissime informazioni sulla guerra in Iraq, sulla corruzione esercitata da alcune multinazionali e di aver diffuso i cablogrammi inviati di alcune ambasciate statunitensi al dipartimento di stato Di lui sono altresì note le prese di posizione contro il segreto di stato in nome di una trasparenza radicale – quasi un ossimoro, perché la trasparenza non può mai essere totale – che consenta ai singoli di potere accedere a informazioni «sensibili». Infine, è noto che da alcuni mesi vive nell’ambasciata londinese dell’Ecuador, dopo la sua decisione di sottrarsi all’estradizione verso la Svezia, chiedo asilo politico al paese latinoamericano.

Ma Julian Assange è conosciuto anche per le accuse di molestie e di stupro dopo che è stato denunciato da due donne che hanno fatto sesso con lui durante un soggiorno in Svezia. Per il fondatore di Wikileaks sono accuse infondate, perché le donne erano consenzienti e che agiscono in base a una legge che perseguo un uomo solo perché riesce a convincere una donna a fare l’amore senza usare il preservativo, omettendo tuttavia che per quella donna quel convincimento può essere invece una forte pressione psicologica ritenuta violenta. In ogni caso, la notorietà di Assange è cresciuta di pari passo con il gossip sul suo carattere – irascibile, incline a scoppi d’ira -, sul suo autoritarismo che lo porta a rifiutare il confronto con punti di vista diversi dai suoi presenti dentro Wikileaks.

Nei media mainstream e nelle tante pubblicazioni sulla sua biografia è prevalsa la scelta di privilegiare l’analisi della sua personalità rispetto a quanto affermava o faceva Wikileaks. L’opera di «spoliticizzazione» o di denigrazione delle sua posizioni è passata appunto su questa «spettacolarizzazione» della sua personalità. È merito del libro Internet è il nemico (Feltrinelli, pp. 171, euro 14) la restituzione invece di un Assange attivista interessato a comprendere il conflitto all’interno della Rete per difendere la libertà di espressione e di contrastare il controllo sempre più cogente da parte degli Stati della Rete. È una lunga conversazione tra Assange, Jacob Appelbaum, Andy Müller-Maghun e Jérémie Zimmermann. I primi due sono membri dello storico Chaos Computer Club, cioè il gruppo di hacker che per primo ha posto il nodo politico della libertà di espressione e di condivisione delle informazioni in Rete. Zimmermann è invece un attivista del gruppo francese «Quadrature de Net».

Il tema al centro del loro confronto è il diritto all’anonimato in una realtà dove la comunicazione dentro la Rete è trasformata da imprese in dati che poi vengono elaborati per definite profili individuali da vendere a imprese pubblicitarie che le utilizzano per pianificare al meglio le loro campagne. Ma la Rete è controllata anche dagli Stati, che raccolgono le informazioni degli utenti della Rete in nome della sicurezza nazionale. Il diritto all’anonimato è dunque un diritto di resistenza all’ingerenza delle imprese e dei governi. I partecipanti alla conversazione non nascondono le simpatie per il movimento cypherpunk , poco diffuso in Italia, ma presenza radicale in realtà come gli Usa, l’Australia, la Germania, l’Olanda, il Regno Unito.

Il punto di partenza di questa conversazione è la constatazione che i costi per la raccolta e lo stoccaggio dei dati sono precipitati a poche decine di milioni di euro, grazie ad efficienti software e potenti unità di memorizzazione. Per un paese come l’Inghilterra lo Stato può permettersi di accumulare dati sulla popolazione spendendo pochissimo. La tecnica che viene usata è definita «strategica» o «tattica». La prima consiste nel raccogliere più dati possibili per elaborarli in seguito. La seconda è invece mirata a gruppi di persone selezionate in base a criteri che vanno dalle preferenze politiche, i consumi culturali, la religione, il paese di provenienza. In ogni caso, lo stato può «intercettare» montagne di dati con poca fatica, come attesta anche la cronaca di queste settimane, dopo che il consulente Edward Snowden ha rivelato che l’amministrazione statunitense ha intercettato per anni le comunicazioni di milioni di americani. L’anonimato diventa dunque una forma di resistenza al potere statale. Nel volume è questo l’aspetto più discusso. Poco invece viene detto sui social network e dell’industria dei metadati, che vedono la cessione individuale dei propri dati a Facebook, Twitter e Google, solo per citare alcune delle imprese più note della Rete.

Ci sono però altri elementi che emergono da questa conversazione. Il primo è che la censura «classica» non è conveniente. È meglio, per gli Stati e anche per le imprese, costruire una piramide dove ogni strato organizza, seleziona, impacchetta le informazione per creare un rumore di fondo che rende impossibile selezionare le informazioni «rilevanti» dalla «fuffa». L’altro aspetto è il rapporto tra «economia» e «politica». Su questo crinale il libro fornisce uno spunto interessante. Le intercettazioni e la raccolta di dati devono presupporre una interdipendenza tra imprese e Stato. Sono ciòè due aspetti di uno stesso movimento teso a mettere sotto controllo la Rete.

L’anonimato è dunque una delle forme di resistenza. Ce ne possono essere altre. Ad esempio stabilire alleanza tra mediattivisti e attivisti off-line. Oppure sviluppare forme produttive autonome da quelle «dominanti», in una miscellanea tra economia del dono, libero mercato e «attività cooperative» incardinate in una sorta di «illuminismo internettiano», dove la libera circolazione delle informazioni garantisce ai singoli e alle collettività l’esercizio della propria autonomia dal potere.

L’attitudine cypherpunk riprende dunque tutti gli elementi della cultura hacker, ma calandola in un contesto dove la Rete è una seconda natura. È cioè il medium «universale» della vita sociale e politica. Un’attitudine a suo modo radicale, da seguire con attenzione. Con la prospettiva di inoltrarsi in quella seconda natura e fare i conti con quel modo di produzione che ha reso i dati un profittevole settore produttivo.