Franco Cordero in vita sua ha cercato spesso di giocare a scacchi con l’esistenza medesima. La sua intelligenza, la complessità del suo spirito e dei sui pensieri, che si sono trasfusi nell’impianto letterario delle opere che ha firmato, gli imponevano di ricostruire la tortuosità delle relazioni umane. Alla luce di un profondo inappagamento di fondo. Chi l’ha conosciuto, ha ricordato anche il suo essere un eruditissimo e implacabile «uomo della grotta», perennemente calato, con il suo stile cogitabondo, nel laboratorio del pensiero. Quasi che coesistessero in lui un’anima pubblicistica, rivolta alla comunicazione e un’altra molto più introflessa, costantemente ripiegata sull’indagine rispetto alle origini di ciò che sono i legami sociali più profondi, di cui il diritto penale, e con esso, in immediata connessione, la filosofia del diritto, sono una sanzione assoluta e definitiva.

LE SUE INTEMERATE contro Silvio Berlusconi, che l’hanno reso noto al grande pubblico, peraltro erano solo la punta di un iceberg. Nella figura pubblica del «caimano» vedeva la quintessenza del feroce pressapochismo che accompagna i nostri anni, laddove questo non è mai indice di superficialità, essendo semmai la pasta di cui è fatta la vulgata populista da più di trent’anni oramai in auge. Esce in questi giorni, a due mesi dalla sua scomparsa, l’ultimo dei suoi romanzi, La tredicesima cattedra (La nave di Teseo, pp. 661, euro xx). Per intenderci, se il Cordero giurista, nel corso della sua vita, ha licenziato una dozzina di testi, molti dei quali fondamentali, come il suo manuale di procedura penale, mentre il saggista ha dato corpo, tra la seconda metà degli anni Sessanta e oggi, ad almeno una ventina di volumi, il narratore si è esercitato in non meno di una decina di opere. Senza contare il corpus di saggi, articoli e altre scritture.

BASTI RICORDARE che un tale autore, riconosciuto per la sua costante eterodossia e per una capacità di scavo critico tanto potente quanto esasperante, prima di transitare nei cataloghi delle più importanti case editrici italiane avviò le sue pubblicazioni con la compianta De Donato, che costituì, fino alla sua chiusura, negli anni Ottanta, un cenacolo di intellettualità estremamente eterogenea: da Franco Fortini a Fosco Maraini, da Pietro Barcellona a Franco Cassano, da Arcangelo Leone de Castris a Franco De Felice, da Romano Luperini a Rossana Rossanda e così via. Il rimando non è di circostanza né, tanto meno, nostalgico. Per una ricostruzione dei quadri intellettuali italiani, dal dopoguerra in poi, è indispensabile collocare Cordero, nella sua rumorosa solitudine di giurista dolce e intransigente al medesimo tempo, all’interno di questo milieu. Non a caso, la sua prolifica produzione, dagli anni Novanta in poi, registra anche la crisi e la consunzione definitiva di una lunga stagione repubblicana e costituzionale, della quale l’editoria è stata non solo testimone ma protagonista.

L’ULTIMO ROMANZO di Cordero sfugge a qualsiasi sforzo di intrappolarlo in un genere specifico. Che ci sia in esso anche uno specchio autobiografico è senz’altro vero ma è bene dotarsi di una pazienza certosina quando ci si avventura nelle lettura delle tante pagine che lo compongono, per non dichiararsi da subito sconfitti (oppure, in una sorta di reciprocità inversa, immediatamente avvinti). Poiché la trama è volutamente depistante. In quanto si parla, per interposte immagini e figure, di un universo di significati da indagare. Un non più giovane docente di filosofia viene chiamato a occupare, in un importante collegio, la tredicesima cattedra vacante. Tuttavia, deve dare prova della sua adeguatezza, attraverso una serie di lezioni, articolate in un mese e mezzo, per il tramite delle quali rivelerà la sua «elezione» a un ruolo accademico che assume il sapore di un’investitura cardinalizia. L’istituzione ha infatti il forte sapore di un ente clericale, dove il clima, i rapporti e i legami sono per più aspetti curiali. Nel contesto di una tale ascesa al soglio accademico, si accompagnano, si intervallano, quasi si affastellano riflessioni e rimandi sull’esistenza individuale e sul suo senso, sulla cultura dell’Occidente e sul rapporto tra i valori fondamentali.

IN UNO SPACCATO di umanità dove alle ambizioni del protagonista, quelle di dare forma ad un romanzo storico ambientato nella guerra dei Trent’anni, si accompagnano le bulimiche letture e le relazioni di circostanza con i colleghi. Sia ben chiaro: non si tratta di un romanzo misticheggiante, ovvero onirico, e neanche di un’opera anticlericale. La domanda sull’archetipo della sacralità di quanto chiamiamo con il nome di «potere», ciò che ci intriga e ci intimidisce al medesimo tempo, è tuttavia costantemente formulata dall’autore nei termini del rapporto tra ortodossia (adesione alle istituzioni custodi delle norme) ed eresia (ricerca di una via autentica alla conoscenza di sé).

CIÒ CHE A CORDERO però interessa è il fondamento dell’agire di potere. Anche per questo la sua scrittura, è al medesimo tempo secca e sinuosa, attingendo ad un repertorio di riferimenti la cui erudizione enciclopedica è superata solo dal profondo sguardo antropologico con il quale l’autore osserva l’evoluzioni delle cose. E degli uomini. Come tale, il romanzo è disseminato di simboli e di indizi, essendo un vero e proprio labirinto dove, per deliberata volontà dell’autore, spesso ci si perde. Lo smarrimento è incentivato dal ricorso ai dialoghi in forma di monologhi, insieme ai continui intermezzi, usati come fenditure, crepe dentro le quali precipita il filo del discorso che protagonista (e lettori) cercano invece di non smarrire. Alla conclusione della lettura di questo libro ci è trasmessa la vocazione alla dissacrazione, laddove però essa non assume mai i toni della denuncia scandalistica bensì del duro lavoro della talpa.

L’OPERA di Cordero è da sempre il tentativo, fotografando singoli istanti, di ricostruire lo spirito di una lunga epoca. I rimandi a Eco, Gadda, Volponi, Sciascia, Borges sono evidenti. Ne resta un sistema di scrittura che, dietro la compiaciuta complessità barocca delle soluzioni letterarie, cela un’inquietudine a malapena rarefatta. Poiché la radice ultima della sua lezione è che, per capire un’attualità cafona e cacofonica, occorre rendersi in qualche modo inattuali, per non essere trascinati nel vortice degli inganni.