Franco Buffoni con Jucci, ultimo libro di poesie edito da Mondadori, (pp. 120, euro 17) e fresco vincitore del premio Viareggio-Rèpaci 2015, fa i conti con la memoria più fonda, i suoi lasciti chiaro-oscuri che si allungano come presagi sul presente dell’autore.
Rovistare il tempo lontano non è cosa da poco neanche per un poeta, richiede energia, precisione di dettaglio e di sentire e in questo Buffoni è maestro. E la memoria nel libro ha un nome proprio, Jucci, compagna del poeta per tutti gli anni settanta, poi morta nell’ottanta prematuramente, voce di una complicità intima, che fa da controcanto, nelle pagine, alle spigolature esistenziali dell’autore, alle sue ambivalenze, i dissidi, le lacerazioni.

Ecco il libro è il resoconto acceso, vibrante di un uomo e una donna che scelgono la verticalità dell’ascensione, la sua scabra essenzialità per parlarsi e parlare del mondo; la montagna con la sua maestosa presenza è un medium dialogante per i due camminatori, da lì tutto prende l’abbrivio: «Oggi che è troppo gonfio senza contorni il cielo,/ Volgiti verso di noi aquila sazia/Per il cibo che almeno ti lasciammo/ Sul cippo di confine nel passaggio/ Tra Veglia e Devero nel 76./…». E i due, in verità, nel vivere in modo intensificato queste percezioni naturali, parlano anche in modo sotteso del loro spazio interiore che muta col passaggio dei tempi ma sempre dentro questa cornice alpina e prealpina con la sua toponomastica che gira nel libro e accende essa stessa, per chi sia davvero appassionato di montagna, delle visioni come le Demoiselle Anglaise, Gnifetti Zumstein Nordend Dufour.

Tanto questa roccia-terra verticale è impressa nello spirito dei due che anche nei momenti più bui di Jucci nelle stanze di ospedale, sembra ridisegnarsi, tra i rari gesti e parole, in nuovi profili, colorazioni: «Come un’antica contessa chiudevi/ Il libro guardando lontano…/Dopo pochi minuti lo riaprivi/ Tenendo il segnalibro in una mano./ Così per le ore del tuo/ Ultimo pomeriggio cosciente».

È come se in quel luogo di degenza angusto, rivivesse lo spazio alpino, con le sue voci eterne che riparlano in sequenza con suoni, movimenti, di una vita quella naturale che non si può spegnere e che accoglie nel suo alveo i richiedenti asilo, gli uomini.
Franco Buffoni e Jucci si sono scelti, e il segno è dato in chiusa di libro da Jucci stessa, per estrema vicinanza intellettiva e culturale: «Mi sarei dovuta sposare di lì a poco/ Quando conobbi te e al primo incontro/ Mi parlasti di von Aschenbach…/…», che mai però si ferma su un piano di una astratta dissertazione libresca. Ogni rimando letterario, sempre così ricercato nella coppia, si fa vita, indica la strada dell’esistere, ma anche quella sottile linea d’ombra che turba e lascia nel buio.
Jucci è anche un libro in cui l’autore rende visibile il suo dare/avere per la compagna, non senza accenti di alta commozione, disperazione per una donna che sembra però ancora essere nella pagine di un presente tutto da decifrare, tutto da riscrivere, tanto la memoria viva può fare. E, difatti, Jucci col suo parlare accorato, ironico sino all’ultimo per la sua esistenza che se ne va: «Non hai mangiato niente./’Vorrei una mela, fresca.’/Scesi a comprarla e quando te la porsi/ ’La mela di Biancaneve’, sorridesti./» inizia, nell’ultima parte del libro, a dialogare con l’autore della vita odierna da uno spazio ultramondano, restituendo a essa nuove aperture di senso, quasi un fondale metafisico da dove sporgersi.

Franco Buffoni in questo libro forse riconsidera la sua nascita poetica ma non poteva esser altrimenti, forgiato nelle parole, nella vita, da Jucci poetessa pura, silenziosa, naturalissima.