C’era una volta l’Adriatico, custode di grande abbondanza e ricchezza. Un mare che fino agli anni ’50 era costellato di banchi di ostriche che fungevano da habitat per la vita e la riproduzione di molte specie e dove fino all’inizio del secolo scorso vivevano numerose specie ormai drasticamente diminuite: squali (come lo squalo angelo, anche detto «squatina»), delfini, grandi cetacei, come il capodoglio e mante giganti. L’Adriatico è una delle aree con la maggiore diversità di specie marine di tutto il Mediterraneo nonostante rappresenti appena il 5% della superficie di quest’ultimo.

La brutta notizia è che oggi, purtroppo, questo mare è seriamente malato e gran parte di quell’antica ricchezza sta scomparendo. Non solo quella più evidente, come gli abbondanti stock di alici e sardine, di naselli e scampi o i banchi di ostriche sottocosta, ma anche quella più nascosta, come la biodiversità dei suoi fondali.
Non è un caso che la Convenzione sulla Diversità Biologica abbia individuato nell’Adriatico una delle zone più critiche per gli ecosistemi del Mediterraneo. I motivi di questo impoverimento sono più di uno ma il principale è l’eccessivo impatto esercitato dalla pesca eccessiva e da metodi di pesca aggressivi, come lo strascico di fondo che provoca, secondo gli esperti, effetti sugli ambienti marini paragonabili al disboscamento delle foreste.

Nella pesca a strascico le reti prelevano non solo le specie bersaglio (cioè quelle che poi consumiamo), ma anche diversi organismi che formano l’habitat, le risorse e il futuro di queste popolazioni. Senza contare le catture accidentali di specie vulnerabili come le tartarughe marine le cui morti dovute alla pesca a strascico si contano intorno alle 200.000 all’anno in tutto il Mediterraneo. La pesca industriale ha causato lo sfruttamento eccessivo degli stock ittici, oggi in forte declino in tutto il Mediterraneo, l’alterazione degli ecosistemi marini e ha prodotto anche una profonda crisi nel comparto della pesca.

A dirlo sono, oltre ai ricercatori e agli ambientalisti, proprio gli stessi pescatori che lamentano  il rischio imminente di una desertificazione dell’Adriatico.  A documentare questa parabola un recente documentario di MedReAct, firmato dai registi Francesco Cabras e Alberto Molinari, dal titolo Anche i pesci piangono, girato nella Puglia adriatica. Il film, selezionato al Lecce Film Festival che si terrà dal 27 al 30 dicembre, racconta attraverso le testimonianze raccolte nelle principali marinerie, il disperato e toccante appello di quanti vivono di pesca, con la consapevolezza di essere al contempo vittime e carnefici di un mare troppo sfruttato e mai rispettato.

L’Adriatico, infatti, sostiene da solo il 50% della pesca italiana, la più importante in Mediterraneo, ma dal 2007 le catture sono diminuite del 21%. L’elevato sfruttamento delle sue risorse ittiche  ha fatto sì che ormai questo mare venga considerato come uno dei più sfruttati al mondo.

Per contribuire al recupero dei suoi ecosistemi è nato, a fine 2016, l’Adriatic Recovery Project, promosso da MedReact con l’Università di Stanford, l’Università Politecnica delle Marche, Legambiente e Marevivo, con l’obiettivo di promuovere la tutela di alcune zone in alto mare particolarmente importanti per la riproduzione e l’accrescimento delle specie ittiche e per la presenza di ecosistemi vulnerabili. Si tratterebbe, insomma, di istituire delle «riserve» marine per il ripristino della biodiversità e il ripopolamento ittico.

L’istituzione di aree chiuse alla pesca può rappresentare un’opportunità senza precedenti per promuovere il recupero degli ecosistemi marini adriatici e un’occasione per garantire una corretta ed efficiente gestione di una pesca sostenibile. Il suo primo importante risultato è stata l’istituzione, nell’ottobre 2017, di una zona di restrizione alla pesca nell’area della Fossa di Pomo, in Adriatico centrale, la più importante zona di riproduzione degli scampi in Adriatico e per questo fortemente soggetta alla pesca a strascico.

Si tratta della prima area chiusa alla pesca demersale in Adriatico, dove per oltre 15 anni i ricercatori avevano chiesto norme di tutela. A conferma di questa esigenza sono arrivate, nell’ottobre del 2017, oltre duecento firme di scienziati da tutto il mondo che hanno aderito all’appello di MedReAct per la chiusura della Fossa di Pomo alla pesca a strascico. Parliamo, quindi, di un risultato storico che dimostra come si possano raggiungere progressi importanti nella tutela del mare anche in aree pesantemente sfruttate dalla pesca industriale.  Un esempio apripista che dovrebbe essere replicato nelle altre aree vulnerabili dell’Adriatico meridionale.

portavoce MedReAct