Hanno ragione Manconi e Anastasia a sostenere, sul manifesto di ieri, che le contingenze politiche e gli interessi personali del cavaliere di Arcore non devono mettere il silenziatore al dibattito su amnistia e indulto, aperto da tempo (seppur sotto traccia) e che ha subìto un’impennata (in qualche modo un abbraccio mortale) con l’improvvida forzatura operata da amici e commensali di Silvio Berlusconi nella spasmodica ricerca di assicurargli salvacondotti o impunità. E hanno ragione anche nel sottolineare che ci si deve guardare dai ricatti al contrario, cioè da quella posizione che, per evitare di assicurare un privilegio a chi non lo può avere, finisce per escludere l’applicazione di un trattamento equo a chi ne avrebbe diritto. Ma c’è, nell’articolo, un punto da approfondire se si vuole indirizzare il dibattito in una prospettiva realistica (seppur non per i tempi brevi), almeno tra chi, già nel 2006, segnalava l’irrazionalità di un indulto non affiancato da amnistia.

Non è vero che i cosiddetti provvedimenti di clemenza devono riguardare solo i fatti di minima entità. Anche storicamente non è stato sempre così. Penso all’amnistia politica concessa con l’articolo 1 del decreto presidenziale 22 maggio 1970, per chiudere i seguiti penali della stagione del ’68-’69 nella quale, con riferimento al solo ultimo quadrimestre del 1969, erano state denunciate – secondo i dati, come sempre errati per difetto, del ministero dell’interno – 8.396 persone per 14.036 reati, tra i quali 235 per lesioni personali, 19 per devastazione e saccheggio, 4 per sequestro di persona, 124 per violenza privata, 1.610 per blocchi stradali e ferroviari, 29 per attentati alla sicurezza dei trasporti, 3.325 per invasione di aziende, terreni ed edifici e 1.376 per interruzione di pubblici servizi. Orbene l’amnistia si estese, allora, a tutti i reati «commessi, anche con finalità politiche, a causa e in occasione di agitazioni o manifestazioni sindacali o studentesche, o di agitazioni o manifestazioni attinenti a problemi del lavoro, dell’occupazione, della casa e della sicurezza sociale e in occasione ed a causa di manifestazioni ed agitazioni determinate da eventi di calamità naturali» punibili con una pena non superiore nel massimo a cinque anni e, sempre alle stesse condizioni, per la violenza o minaccia a corpo politico o amministrativo, la devastazione, gli attentati alla sicurezza di impianti, il porto illegale di armi o parte di esse e l’istigazione a commettere taluno dei reati anzidetti. Furono, dunque, amnistiati – se commessi in occasione di manifestazioni politiche – anche delitti puniti con sanzioni assai elevate, come la devastazione, per cui l’articolo 419 del codice penale prevede addirittura una pena da otto a quindici anni di reclusione. La ragione la chiarì, nel dibattito alla camera, il relatore della legge di autorizzazione dell’amnistia affermando che occorreva dare risposta al «disagio diffuso nella pubblica opinione che, pur deprecando taluni episodi di autentica delittuosità e pericolosità sociale, ritiene in gran parte sproporzionata e sostanzialmente ingiusta la rubricazione di quelle vicende sotto titoli di reato che erano stati dettati in un’epoca in cui era sconosciuta la realtà storica dei conflitti che caratterizzano tutti gli stati moderni». 

Il punto è proprio qui, in positivo e in negativo, per ciò che si può e per ciò che non si può fare, per ciò che può stare insieme e ciò che non tollera compromessi. Un’amnistia razionale e, per questo, utile anche oltre la contingenza deve fare delle scelte e non mettere dei tratti di penna più o meno a caso. Deve, in particolare, cancellare oggi i reati anacronistici o meno gravi commessi in passato nell’attesa (operosa) che, in futuro, gli stessi siano abrogati o riscritti. Solo così l’amnistia può essere, insieme, un provvedimento socialmente accettato e l’anticipazione di un sistema penale diverso (e non una semplice, ancorché preziosa, aspirina per diminuire temporaneamente la sofferenza di un carcere che scoppia). Se si segue quest’ottica, le conseguenze sono evidenti: non si può concedere amnistia per quei reati, anche se in ipotesi puniti con pene miti, che creano un grande allarme sociale e sul cui contrasto l’intera società civile e politica è, almeno a parole, duramente impegnata. È il caso, per esempio, della corruzione e dell’evasione fiscale, universalmente indicate come responsabili dell’impoverimento del paese. Al contrario, l’amnistia ha un senso – almeno per chi coltiva l’idea di una società giusta e fatta di uguali – per tutti i reati bagatellari (per i quali la sanzione penale è in ogni caso inadeguata e sproporzionata) e, a prescindere dalla pena, per quei delitti che stigmatizzano le persone (ovviamente quelle sgradevoli o sgradite) più che i fatti e di cui si trovano molteplici esempi nella legge sugli stupefacenti, in quella sull’immigrazione e nella parte del codice penale dedicata all’ordine pubblico.

So bene che, oggi, proporre un’amnistia e un indulto siffatti significa andare incontro a scomuniche e veti bipartisan. Ma parlarne significa aprire, finalmente, un dibattito sul diritto penale che vogliamo, sulle regole della nostra convivenza, sulle modalità di gestione del conflitto sociale. Temi che, prima o poi, dovranno entrare anche nelle competizioni elettorali.