L’intera opera di Stephen Shore ricorda quello che disse Jean-Luc Godard (Moi, je suis une image): «Esisto più come immagine che come essere reale, poiché la mia unica vita consiste nel farne (…) Non ti interessi al mangiare, allo sport… E io dico: mi interessa ed è importante per me filmare il mangiare!». E quando Rimbaud affermava «la vera vita è altrove», non era certo soltanto una parola questo «altrove» che è la vita. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, il senso di un «altrove» lo abbiamo ritrovato ancora una volta nell’arte: le fotografie a colori di William Eggleston e Stephen Shore, i ritratti, lo still life, le visioni urbane, i paesaggi naturali, le vacanze di famiglia, la pubblicità, il cibo, la strada, l’architettura locale. Un diario in bianco e nero, nel caso di Shore, iniziato alla fine degli anni Sessanta come resoconto del tempo trascorso alla Factory di Andy Warhol.

Merleau-Ponty nel descrivere l’opera d’arte come una manifestazione sensibile dove s’intrecciano immanenza e trascendenza, conferma che il problema della rappresentazione per immagini si esaurisce a vantaggio della risonanza dell’immagine sull’Io, e questa verità paradossale dell’arte si rivela solo a colui che, con la sua percezione si lascia pervadere da un’esperienza in cui lo sguardo e la cosa vista perdono i loro reciproci contrassegni esteriori: «Qualità, luce, colore, profondità sono davanti a noi soltanto perché risveglino un’eco nel nostro corpo, perché esso li accolga».

Nel 1971 Shore fotografò gli edifici principali e i luoghi d’interesse pubblico della piccola città texana di Amarillo. Al posto di vendere molte delle 5600 stampe che aveva realizzato, Shore le sistemò negli espositori di cartoline di tutti i luoghi che visitava (alcune gli furono spedite per posta da amici e conoscenti che le avevano riconosciute). Il coinvolgimento e interesse per la pop art e la sua pratica fotografica quotidiana – di cui simulava uno stile da istantanea – determinarono, all’inizio degli anni Settanta, l’avvicinarsi di Shore alla fotografia a colori.

A proposito del suo lungo viaggio in auto per realizzare American Surfaces nel 1972, Shore dice: «Fotografavo ogni cibo che mangiavo, ogni persona che incontravo, ogni cameriere o cameriera che mi serviva, ogni letto in cui dormivo, ogni gabinetto che usavo». Marta Dahó, nella prefazione al volume Stephen Shore (edizione italiana ContrastoBooks, il libro ha accompagnato la retrospettiva europea alla Fundación Mapfre di Madrid), scrive: «Se molti artisti visivi, che cominciavano il loro percorso professionale a metà anni Sessanta, si sono sentiti attratti dalla fotografia e l’hanno concepita come un mezzo particolarmente idoneo, lo si deve, in parte, al fatto che il suo statuto artistico non era ancora consolidato; la sua caratteristica trasversalità la manteneva in una posizione ambigua».

Ma nel 1973, Shore decide di lavorare con una Crown Graphic 4×5, mentre un anno dopo, l’autore comincia a utilizzare una macchina a lastre 8×10, con l’intenzione di migliorare la qualità di American Surfaces, rallentando sia il metodo che i risultati. A quel punto, la natura del suo diario visivo si trasforma, l’apparecchio di grande formato e la pellicola a colori permettono a Shore di raggiungere nitidezza e trasparenza, una luce particolarmente raffinata nelle sue stampe finali. Il successivo Uncommon Places trascende «la rappresentazione del territorio geografico per fare risaltare quanto la percezione mediata dalla fotografia imponga una struttura concreta che modella la nostra comprensione».

In una tradizione in cui gli artisti visivi comunicano significati molto complessi sul loro mondo, ogni immagine di Shore rappresenta anche la visualizzazione del modello culturale americano – economico e politico – implicito nelle figure ornamentali, architettoniche e urbanistiche. «I semafori ondeggiavano appesi ai fili per effetto di un’improvvisa folata di vento. Ci trovavamo nella via principale della città, una serie di grandi magazzini, di posti che cambiavano assegni, di punti vendita all’ingrosso… Indistinte strutture definite Centro Raccolta, Centro Imballaggio, Centro Congressi. Quant’era prossimo, tutto ciò, a una classica foto piena di rimpianto (Don De Lillo, Rumore Bianco)».
Nella lunga intervista, contenuta nel libro, realizzata da David Campany, Shore sottolinea la sua prossimità (quasi una somiglianza da tipi psicologici junghiani) a Walker Evans, un artista che – tra le tante qualità – risolveva problemi visivi, ma era interessato anche a dire qualcosa sull’America degli anni Trenta, almeno quanto poteva esserlo Faulkner. «Vado nei posti che presentano una situazione concreta in cui lavorare. Non voglio imporre niente al luogo. Scelgo luoghi in cui il problema sia già inerente al paesaggio», dice Shore. Questo accumulo di immagini è spazio di somiglianza interminabile; mutuando da Maurice Blanchot, potremmo dire che «ogni figura è un’altra figura, è simile a un’altra, e ancora a un’altra, e questa a un’altra, vorremmo essere rinviati a un punto di partenza».

E invece, l’imperscrutabile esca per lo sguardo ci porta in quell’«altrove», siamo in un’altra fase della vita dell’artista, l’attenzione non più rivolta al Kairos, ma al Chronos degli eventi storici, come nel più recente lavoro di Shore in Ucraina, terra di origine del nonno paterno, dove ha fotografato i sopravvissuti alla Shoah dell’Europa orientale, persone dimenticate senza alcun risarcimento perché molto a est.

Sono immagini troppo digitali per essere davvero simili allo Shore che abbiamo conosciuto, e tuttavia in questa pacata intensità visiva – da convalescenti di ciò che resta del Novecento – possiamo guardare la fotografia di Shore a Medzhybozh, Ucraina: un uomo sullo sfondo ci guarda, le mani appoggiate sui fianchi in un gesto con cui comprende se stesso e un’epoca intera: ci tocca perché affronta interrogando lo spazio tra di noi. E questa volta, superstiti, sappiamo che non ci sarà ritorno.