Daniele Gatti ha aperto tutti i tagli che tradizionalmente sono effettuati quando si rappresenta la Traviata di Giuseppe Verdi. Ha fatto benissimo. La giustificazione che di solito si adduce è che, per esempio, la cabaletta di Giorgio Germont, «No, non udrai rimproveri», che tuttavia da qualche tempo i baritoni ogni tanto reintroducono, non è musicalmente eccelsa, e che alcune ripetizioni, alcuni sviluppi tradizionali di scene e concertati, rallentano l’azione. Sbagliato! La drammaturgia verdiana non può essere giudicata con i criteri di altri tipi di drammaturgia, come quella wagneriana o dell’opera veristica, vanno invece rispettati i suoi criteri strutturali, che sono quelli del melodramma costruito sulle forme chiuse, come è stato impostato una volta per tutte da Rossini. Verdi interviene sui collegamenti tra le forme, sfuma le suture, lavora sull’interdipendenza, anche tematica, abbrevia, allunga, mescola, in modo da creare l’illusione di una continuità, ma non tradisce mai l’impianto generale, che è quello di forme chiuse che si allacciano le une alle altre. Non lo fa mai. Nemmeno nell’ultimo periodo, nemmeno in Otello e in Falstaff.

È LA FORMA, anzi la forma chiusa, a creare la drammaturgia e non viceversa, la drammaturgia a costruire un flusso musicale. La morte di Violetta non avrebbe la solennità che ha se non fosse costruita, musicalmente, come la marcia funebre per la morte di un eroe. Su questo impianto musicale di estrema coerenza, Daniele Gatti riorganizza la sua interpretazione con mirabile intelligenza, finezza di sfumature espressive, controllo di tutti i piani, assai complessi, dei rapporti tra le voci e l’orchestra, e finalmente, per esempio, si è udita l’orchestra attaccare piano il brindisi del primo atto. Mario Martone ha poi sviluppato una drammaturgia scenica parallela, ma intimamente intrecciata a quella musicale. Intanto, come per Il barbiere di Siviglia, non ha finto che il teatro fosse quello di sempre, con il pubblico in platea e nei palchi, ma ha esibito, quasi con spudoratezza, la sua vuotezza, l’angoscia di un teatro che non è teatro.

LA SCENA ALLORA diventa – in epoca di pandemia – tutto intero il teatro, anche i palchi, anche le scale che conducono agli ordini. Il che rende ancora più evidente l’innaturalità di un teatro senza pubblico. Alcuni momenti riescono, anzi, paradossalmente a rendere perfino più intensa la stessa rappresentazione. Come le quinte di alberi del secondo atto che cadono giù a lasciare desolatamente sola Violetta e in mezzo alla scena il letto, dove si suppone lei e Alfredo si amavano. O il tavolo da gioco della festa in casa di Flora, con il grande lampadario abbassato. L’arrivo di Alfredo, alla fine, giù in una platea deserte, e Violetta, sopra, dietro la tenda di un palco. Come prima nella scena dell’insulto. E Violetta muore sola – come nel romanzo – quasi a suggerire che l’arrivo di Alfredo fosse un suo desiderio, una sua fantasia.

CHE DIRE? Una Traviata mozzafiato, commovente, disperata. Gli interpreti hanno seguito con straordinaria partecipazione le indicazioni sia di Gatti sia di Martone, restituendo alla sublime partitura tutta l’intensità di una drammaturgia musicale concitata. Qui sta il nodo: drammaturgia e musica sono la stessa cosa. Lisette Oropesa, statunitense di origini cubane, è una Violetta da manuale: recita con il canto. Le sfaccettature di un personaggio complesso prendono vita momento per momento. Accanto a lei, Saimir Pirgu è un Alfredo finalmente non ingenuo o infantilmente impulsivo, ma un amante appassionato. Nobile la figura di Giorgio Germont disegnata da Roberto Frontali, un borghese duro, conformista, che via via si trasforma in uomo pietoso e comprensivo. Il dolore trasforma, come sempre in Verdi. Tutto il resto della compagnia è all’altezza. Magnifici il corpo di ballo, l’orchestra, il coro. Sembra che questa Traviata , trasmessa in diretta da RAI3 venerdì 9 aprile, sia stata vista da quasi un milione di spettatori. Non può che far piacere a chi ama la musica e il teatro. Ma soprattutto è un’altra azzeccata realizzazione del Teatro dell’Opera di Roma.