Si tratta di un libro, ma è davvero «spettacolare», perché uno dei più importanti registi teatrali europei degli ultimi decenni si racconta su quelle pagine nei momenti più belli e su quelli più «critici» della sua storia artistica, fin dagli anni della formazione. Ma con assoluta sincerità (come può testimoniare chi pure l’ha seguito in tutti questi anni), e per di più rispondendo a domande e sollecitazioni da parte di un attore, che per altro ha avuto la fortuna di lavorare diverse volte con lui. Una cronaca tutta «dall’interno» quindi, ma che apre notevoli squarci dentro e fuori del mondo dello spettacolo, e soprattutto sui rapporti di questo con il mondo di oggi. Un’altra prospettiva è il titolo quasi programmatico: protagonista è il grande Peter Stein, stimolato e sollecitato da Gianluigi Fogacci (Manni editore, 174 pp., 16 euro il prezzo).
Molte cose si sanno dei suoi lavori, che hanno fatto davvero storia, e anche del suo modo di lavorare, per il quale ha elaborato modalità e metodi del tutto originali, anche se ispirati alle tradizioni più nobili e innovative del teatro del novecento, da Cechov a Stanislawski, e via via ai maestri di tutto un secolo. Ma avendo sempre ben solide e presenti le sue radici di studioso di storia dell’arte, su cui si è formato fin dall’adolescenza, con una passione particolare per le arti figurative italiane a partire dal medioevo. Un amore che lo ha portato a frequentare spesso l’Italia, nel circuito di quell’arte che prediligeva (e da tempo anche a stabilircisi, nel verde dell’Umbria).

CRESCIUTO nel settore francese di Berlino divisa dal fatidico muro, e poi trasferitosi con i suoi genitori nel settore controllato dagli inglesi, Peter Stein ha vissuto ovviamente il ’68, e ha sedimentato la valenza politica del teatro, approfondendo le radici «politiche» di quel linguaggio a partire dalla Grecia classica, con le sue mitologie e le personificazioni che queste prendevano sulla scena. Oggi, maestro riconosciuto di un’arte e delle possibilità del suo linguaggio, Stein si guarda indietro, senza nostalgia o rimpianti, ma raccontando con molta onestà i gradini di quel suo «lavoro». E scoprendo anche gli elementi che lo hanno portato a quel livello di grandezza, a cominciare dal lavoro con e «su» gli attori. Una storia molto bella, istruttiva e rivelatrice, che il regista dipana e scopre con modestia, ammettendo anche, tra i molti successi raggiunti, errori e ripensamenti, ogni volta fecondi.

DAGLI INIZI teatrali a Monaco di Baviera che negli anni dopo il ’68 era il centro pulsante della ricerca (in teatro come al cinema) di una generazione desiderosa di liberarsi delle pesanti eredità del passato, fino all’arrivo a Berlino, dove negli anni 70 costruì un ensemble di altissimo livello alla Schaubühne, con attori già straordinari come Edith Clever, Bruno Ganz, e poi Jutta Lampe, Otto Sanders e numerosi altri. Stein ci fa capire la differenza con il sistema teatrale italiano, dove gli enti teatrali sono tutti a gestione pubblica, mentre in Germania esiste una «proprietà privata», che se non altro è libera dai condizionamenti immediati della politica, ma ha bisogno degli incassi per sopravvivere.
La sua Orestea, nel 1980, fu una vera esplosione, di linguaggio, visioni, interpretazioni che da quella antica sede del teatro sul greto della Sprea, si avviò a conquistare il mondo, facendo di ogni apparizione un evento planetario per il teatro: dalla Concha di Caracas al teatro dell’Armata rossa a Mosca, dove gli fu chiesto di realizzare dopo qualche anno in russo una versione locale dello spettacolo, fino alla infimenticabile rappresentazione al teatro romano di Ostia antica nel 1983, che segnò per i teatranti italiani una rivelazione mai più eludibile. Così come per il regista costituì un coronamento trionfale per i suoi studi classici, di arte e archeologia.

IN REALTÀ, per fermarsi all’Orestea, lo spettacolo ebbe un incommensurabile valore politico, in quanto quel percorso sanguinoso dalla tragedia familiare degli Atridi all’affermazione della giustizia portata da Atena che restituiva piena cittadinanza a Oreste, rappresentò e sanzionò culturalmente la fine e la chiusura degli «anni di piombo», che anche in Germania avevano prodotto una lunga scia di sangue. Un effetto da noi inimmaginabile per uno spettacolo teatrale, per quanto elaborato e complesso (le tre parti, rispettando le parole e il percorso di Eschilo, si sviluppavano dalle 14 fino alle 11 della sera, comprendendo anche una minestra calda e rinfrancante per gli spettatori tra Coefore e Eumenidi).
Stein scorre nel libro il panorama dei suoi spettacoli, fino ai tormentati (produttivamente) Demoni, nuovo meraviglioso viaggio per le coscienze del pubblico. Ma il regista, con discrezione, racconta anche la sua vita privata, che al suo teatro è legata «coordinata», e fa emergere una esemplare storia personale che racchiude e vivifica reciprocamente pubblico e privato. Una esperienza che è una testimonianza, di un livello e di una ricchezza che è bello ora poter leggere (oltre ad averla goduta sulla scena, per chi ne ha avuto la fortuna).