La Conferenza di Varsavia (Cop19) avrebbe dovuto scandire il negoziato verso Parigi 2015, quando andrà adottato un nuovo accordo sulle riduzioni delle emissioni di gas-serra, per contenere entro i due gradi l’aumento della temperatura media globale. Lo scorso anno venne adottato il Doha Climate Gateway, escamotage per tenere aperta una trattativa già a rischio. Polonia, Russia e Ucraina tentarono allora di stoppare un accordo per continuare a lucrare sulla vendita di quote di emissione, soluzione che l’Unione Europea voleva abbandonare per segnalare l’impegno all’effettiva riduzione delle proprie emissioni.

Che le sorti di una Cop presieduta dal governo polacco fossero nelle mani delle lobby delle imprese c’era quindi da aspettarselo, non foss’altro per il nutrito pacchetto di multinazionali sponsor. Che però lo stesso decidesse di remare contro nessuno poteva immaginarlo, almeno nelle modalità. Dal sostegno a una kermesse parallela per il carbone “pulito” alla sostituzione in corso d’opera del ministro dell’Ambiente e presidente della Cop con un ministro palesemente a favore del «fracking» e dei gas di scisto, e il gioco è fatto.

Sullo sfondo la condotta contraddittoria dell’Unione Europea. Da un lato la commissaria al clima Connie Hedegaard ha fatto la voce grossa contro i sabotatori della lotta al cambiamento climatico. Dall’altro prevale il nuovo approccio suggellato nel Consiglio Europeo di giugno scorso, quando – cedendo alle lobby industriali – il Presidente della Commissione Barroso impose l’abbandono di un approccio alla mitigazione dei cambiamenti climatici e di un’equa transizione ecologica, privilegiando l’accesso – per le imprese – a fonti energetiche “endogene” e a basso costo, quali carbone pulito e gas di scisto. I tentativi della Hedegaard poco possono contro il muro alzato dai Commissari “che contano” (del commercio e mercato interno in primis), che rappresentano gli interessi dell’industria. Questa è oggi l’Europa: un attore globale incapace di parlare a una sola voce, nella sua proiezione esterna, e tanto meno al suo interno. Un’incoerenza che si ripeterà a dicembre a Bali, quando la Ministeriale della Wto tenterà di resuscitare il Doha Development Round proponendo ricette liberiste socialmente ed ecologicamente insostenibili.

Questa è la posta in gioco per il premier Enrico Letta nel semestre di presidenza dell’Unione nel 2014, tappa chiave nella “roadmap” verso un accordo sul clima nel 2015 che entrerà in vigore nel 2020. Date che confermano come la “realpolitik” delle Cop neghi un’evidenza fatta di catastrofi nelle Filippine, negli States come nella nostra Sardegna. Contraddicendo inoltre la scienza e i dati dell’Ipcc che confermano l’urgenza di stabilizzare la temperatura globale riducendo le emissioni già dal prossimo anno. Conferenza del carbone e del carbonio quindi, e non della finanza per il clima, come invece si diede ad intendere, nel tentativo di accattivarsi il sostegno dei G77 e dei paesi impoveriti. Nessun impegno per risarcire i danni causati da eventi estremi, qualcosa dalla Germania per il Fondo Verde per il Clima, e pochi soldi sul tavolo sufficienti a salvare il Fondo sull’Adattamento, e lanciare un programma sulla foreste, chiamato «Paesaggi Sostenibili».

Banca Mondiale, Norvegia, Stati Uniti e Germania vorrebbero così tenere assieme tutela delle foreste, biodiversità, lotta alla povertà, diritto al cibo e «greenwashing» delle multinazionali. Che potranno creare nuovi mercati e avvantaggiarsi di false soluzioni quali il commercio di permessi di emissione di carbonio o la compensazione delle proprie emissioni su terre altrui. Terre minacciate dal land grabbing, inaridite dai cambiamenti climatici, sfruttate fino allo sfinimento dall’agribusiness.

La terra potrebe diventare leitmotiv sul clima e non solo, Basti pensare alla Conferenza Onu sulla lotta alla povertà del 2015, o all’Expo di Milano. La vera sfida sarà allora quella di mettere sul serio al centro la giustizia climatica, sociale ed ecologica, e il protagonismo delle comunità locali, indigene, e contadine, e dei movimenti sociali che già da ora praticano dal basso modelli alternativi di produzione e cura del territorio. Gli stessi che hanno abbandonato giorni fa in segno di protesta lo stadio di Varsavia dove i governi facevano “melina”.