I risultati del referendum britannico sollevano molti interrogativi. Anche se si è trattato di un esercizio di democrazia, il tema è stato posto all’attenzione e votazione dei cittadini in modo troppo superficiale. L’apparente semplicità – ed estrema semplificazione – del quesito referendario – «il Regno Unito dovrebbe rimanere nell’Unione europea? Remain vs. Leave» – è un inganno mal concepito dal governo britannico.

Cameron pensava di rafforzare la propria legittimazione, sia nei confronti di una opposizione laburista ancora debole guidata da Jeremy Corbyn, sia nei confronti dell’opposizione interna rappresentata dal bellicoso Boris Johnson. Si è trattato di un madornale errore di valutazione politica. Peraltro, molto simile a quello che sta commettendo Matteo Renzi col referendum costituzionale. Tralasciando le analogie con l’Italia, ritorniamo al Brexit con tre considerazioni.
In primo luogo, l’esito del referendum viene da lontano: è il prodotto di decenni di euroscetticismo britannico e delle note politiche di austerità «co-sponsorizzate» dai governi britannici e dalle istituzioni europee che anche nel Regno Unito hanno prodotto disastri (si leggano le tragiche testimonianze contenute nel libro di Mary O’Hara, Austerity Bites, Policy Press).

Come stupirsi se, di fronte ad una scelta pur semplificata, la risposta è stata «fuori dall’Ue»? Sappiamo che un’ampia maggioranza di giovani ha votato per rimanere, mentre la popolazione ultracinquantenne ha votato «exit». I giovani sono quelli che – anche tramite una maggiore mobilità «a basso prezzo» – beneficiano maggiormente di alcuni aspetti dell’integrazione europea, mentre la popolazione anziana sotto il profilo simbolico rischia di perdere la propria identità britannica senza che ne venga offerta una nuova a livello europeo. In realtà, la Brexit pone a rischio la tenuta stessa del Regno Unito visto che Scozia e Irlanda del Nord hanno votato a favore della permanenza nell’Ue e presto chiederanno nuove consultazioni indipendentiste.

In secondo luogo, la Brexit potrebbe scatenare un effetto domino incontrollabile che mette a rischio l’integrazione europea. O meglio, pone in forte discussione l’attuale modello di integrazione europea. Già si levano le voci dei leader delle destre radicali quali Salvini, Le Pen e altri che invocano altre consultazioni referendarie. Si tratta di un grande rischio non solo per l’Unione europea, ma prima ancora per i singoli paesi che dovranno fronteggiare nuove campagne elettorali tesissime.

In terzo luogo, la Brexit è un atto d’accusa nei confronti di una classe politica che ha perso contatto con la realtà. A parte alcune eccezioni, la sfiducia generalizzata dei cittadini nei confronti della classe politica è connessa alla perdita di legami forti tra rappresentanti e rappresentati, e solo la semplificazione populista sembra avere successo proprio perché fortemente anti-casta. Vedremo come il governo britannico riuscirà a negoziare la propria uscita. Ma se l’integrazione europea ha un futuro, in questo futuro ci deve essere spazio per un’altra Europa, di diritti, di equità e di solidarietà. Pertanto molto diversa da quella attuale.