Il documentario Milva prende spunto da una storia vera. Nella provincia di Taranto si prova infatti ad usare la canapa come fito-depurante già nel 2014. L’esperimento ha luogo nella masseria Carmine, situata a pochi chilometri dall’Ilva.

Vincenzo Fornaro, allevatore da generazioni e proprietario della masseria, è oggi uno dei protagonisti del documentario. In Milva si intrecciano dunque realtà e finzione.

Tutto ha inizio del 2008, quando l’associazione ambientalista Peacelink consegna alla procura di Taranto le analisi effettuate su un pezzo di formaggio pecorino prodotto alla masseria Carmine. I risultati rivelano che i livelli di diossina e altri inquinanti sono tre volte superiori a quelli consentiti dalla legge. Le analisi effettuate sulle pecore e le capre della masseria confermano la diagnosi: la carne degli animali è piena di diossina. Fornaro è costretto a portare al macello i suoi circa 600 capi di bestiame. Lo stesso succede ad altri allevatori della zona, che da un giorno all’altro assistono alla distruzione della propria attività.

Fornaro e suo fratello si trovano davanti ad una scelta difficile: mollare tutto e ricominciare da un’altra parte, oppure restare sul territorio e combattere. «Abbiamo preferito questa seconda scelta», dice. Decide di riconvertire la sua masseria. Dall’incontro con Claudio Natile, amministratore di Canapuglia, e Marcello Colao, consulente dell’Associazione Biologi Ambientalisti Pugliesi, nasce l’idea di seminare la canapa per bonificare i terreni contaminati. Il progetto va avanti per due anni; il tempo necessario a monitorare il miglioramento della qualità del terreno ed analizzare i livelli di inquinanti presenti nel raccolto. I risultati sono soddisfacenti.
La terza semina, prevista per marzo 2020 e rinviata a causa del lockdown, avverrà nella primavera del 2021. «Credo molto in questa attività», dice Fornaro. «Il mondo ha necessità di produrre materiali riciclabili, e la canapa può accelerare la transizione verso l’economia circolare». Fornaro ha commentato con amarezza l’accordo Stato-ArcelorMittal: «Vanno al macello le pecore, ma anche i cittadini di Taranto».

L’esperimento della masseria Carmine ha fatto da apripista ad altre iniziative di ricerca sulla coltivazione di canapa nella provincia di Taranto. Colao, ingegnere ambientale, sta seguendo un progetto di fito-risanamento su un altro terreno vicino all’ex Ilva, partito grazie ad un finanziamento di 20 mila euro della Regione Puglia. Il progetto durerà un anno, ma per una ricerca completa sugli effetti della bonifica sarebbero necessari 4 o 5 anni e finanziamenti molto più ingenti.

Quando si scrive di Taranto, di Ilva e in generale di Meridione è facile cadere nella retorica romantica del Davide contro Golia, della battaglia di pochi illuminati contro un mostro più grande di loro. Ma le utopie e i cambiamenti si costruiscono a partire dalle volontà dei singoli solo se accompagnate da un piano politico a lungo termine. Sono pochi i tarantini che oggi credono alle promesse di «acciaio green», e sembra che piani ambiziosi di riconversione siano per ora relegati alle utopie del grande schermo.

Taranto è stanca e arrabbiata, eppure l’amarezza sembra avere difficoltà a tradursi in un movimento unitario di dissenso. All’indomani della firma di un altro patto siglato sulla pelle dei tarantini in nome del profitto, le parole di Alessandro Leogrande suonano più come un augurio che come una constatazione: «Così, alle spalle di questo vuoto istituzionale e imprenditoriale, la città sembra pervasa da una strana calma. Apparentemente apatica, Taranto è una città che sa accendersi per poco. Basta cogliere i segni. E ricordare i modi in cui lo spaesamento collettivo può sempre trasformarsi in protesta improvvisa».