E così ora abbiamo un ministero della Transizione ecologica di cui presto capiremo meglio le deleghe. Un super ministero come è stato annunciato, oppure il vecchio ministero dell’Ambiente più l’Energia? E poi quale e quanta energia dallo Sviluppo Economico? In ogni caso una bella operazione, se inderogabilmente guidata dalla concreta convinzione che questa transizione deve seguire l’urgenza richiesta dalla crisi climatica, senza tentennamenti. Che significa accelerare la dismissione delle fonti fossili, a cominciare con l’eliminazione dei 20 miliardi di sussidi pubblici ambientalmente dannosi che ogni anno pagano i contribuenti italiani e rilanciare senza se e senza ma le rinnovabili, ancora oggi fortemente penalizzate nel nostro Paese. Oltre alle competenze in materia energetica occorre conoscere la macchina amministrativa perché la semplificazione delle autorizzazioni in questo settore deve essere la priorità e la sua attuazione non è cosa da poco.

Bisogna considerare centrale e non marginale l’economia circolare, che è un approccio dell’intera filiera industriale e non solo gestione dei rifiuti; introdurre nuovi strumenti per una forte penetrazione dell’efficienza energetica negli edifici (settore con il più alto potenziale di riduzione dei consumi energetici); preparare programmi in grado di dimostrare di essere finalmente incisivi, concreti ma soprattutto convinti, nonostante i proclami unanimi a favore di un non bene specificato green.
Questo ministero, che coordina ambiente, energia, infrastrutture e sviluppo, è una necessità per abbandonare definitivamente l’epoca in cui la tutela dell’ambiente veniva rappresentata in antitesi rispetto allo sviluppo, all’economia e alle infrastrutture. L’economia deve basarsi sull’ecologia, perché lo sviluppo, se non è sostenibile, non può essere considerato sviluppo. Un Ministero per la ripresa e la giustizia sociale, a partire da un meccanismo di attribuzione della spesa basato anche sulle valutazioni di impatto di genere, come ha affermato Alexandra Geese, europarlamentare tedesca dei Verdi.

AUSPICHIAMO CHE IL MINISTRO PER LA TRANSIZIONE ecologica sappia cogliere la misura e il senso della grande opportunità che abbiamo di fronte, a partire da una rapida revisione del Piano di Resilienza e Resistenza (Pnrr) per il Recovery Fund e del Piano Nazionale Energia e Clima (Pniec), autentiche urgenze in un paese che sta faticando anche solamente a cercare di seguire le indicazioni dell’Europa, con i suoi nuovi target di riduzione delle emissioni e di crescita delle rinnovabili. La loro reciproca interazione è fondamentale e la loro definizione assume caratteri di estrema urgenza. Poi, la consapevolezza che una transizione (o trasformazione, come ha indicato Monica Frassoni, ecologista europea) deve essere misurabile attraverso «milestone» certi e chiari. Se il prezzo delle emissioni di anidride carbonica raggiungerà i 100 euro/tonnellata nei prossimi dieci anni contro gli attuali 33, in assenza di interventi virtuosi, di un sistema bancario adeguato e di certezza su programmi e raggiungimento di obiettivi, la redditività media delle aziende pesanti e delle utilities verrebbe dimezzata, conseguenza di un rischio climatico sottovalutato. Precisare e innalzare i target di decarbonizzazione comporta una programmazione complessa di più aree di intervento: transizione verde, trasformazione digitale, crescita sostenibile e ricerca, coesione sociale e territoriale, salute, formazione ed educazione. Tutto questo manca nelle bozze cha abbiamo letto finora. 210 miliardi sono tanti, oltretutto concentrati al 37% su rivoluzione verde e transizione ecologica: è sicuramente possibile elencare a cosa non devono essere destinati, posto che la condizione non negoziabile è quella di considerare interventi da realizzare nei prossimi 5-6 anni ma che costituiscano un volano per la crescita industriale e sociale del Paese sul medio-lungo periodo.

GLI INVESTIMENTI NON DEVONO ESSERE ASSEGNATI senza una strategia di sviluppo industriale e un nesso tra la disponibilità di risorse pubbliche e la capacità che queste hanno nell’attivare gli investimenti privati. Il PNRR non può essere privo delle riforme e degli strumenti necessari per raggiungere gli obiettivi a fronte di determinati ingenti investimenti. Il Paese necessita di un quadro normativo e regolatorio necessario per autorizzare, costruire e esercire in tempi certi (e brevi) i nuovi impianti alimentati da fonti rinnovabili; il PNRR non può non indicare come si possano intensificare gli interventi e l’efficacia sull’efficienza energetica, da troppi anni stagnanti per l’incapacità di revisionare in modo significativo i certificati bianchi.

La definizione del PNRR non può prescindere dalla formalizzazione di un metodo di consultazione con gli attori sociali e con gli enti locali. La consultazione perché possa essere efficace deve essere attivata nelle fasi di preparazione del piano e non al suo termine ed il confronto deve essere mantenuto aperto per tutto il periodo di applicazione del Piano.

LA VISIONE DEVE INCLUDERE IN MANIERA STRUTTURATA e integrata le diverse dimensioni della decarbonizzazione: i macrosettori energetici, il mercato elettrico, i trasporti, gli edifici, l’industria, le città, la catena del cibo e l’adattamento. Non devono mancare i nessi con le strategie europee di trasformazione dei mercati energetici, dello sviluppo degli accumuli, la riforma della fiscalità energetica, i piani del traffico e della mobilità nelle città, il ruolo degli edifici anche su scala suburbana.

Alcune riforme da inserire nel PNNR sono già indicate nelle raccomandazioni del semestre europeo. Altre dovranno fare parte di un programma nazionale che muova dalle esigenze del paese. La riforma fiscale e del lavoro, necessaria per gestire la crisi, deve essere accompagnata dall’introduzione di fiscalità ambientale a supporto della strategia di decarbonizzazione. Le riforme per gestire la spesa dovranno riguardare capitoli importanti quali la contabilità ambientale, il processo autorizzativo delle infrastrutture, la governance sul clima, in particolare il rapporto tra lo Stato e le Regioni e con la società civile.

E poi, in questo momento decisivo per le sorti del paese e delle generazioni future non dobbiamo avere paura di fare scelte innovative e chiare. Servono criteri minimi per l’accesso al Next Generation EU per verificare la coerenza con gli obiettivi di decarbonizzazione. Non dobbiamo avere paura di dire le cose come dovrebbero essere: eliminazione graduale dei sussidi ambientalmente dannosi; revisione delle accise e tasse sui trasporti in base alle emissioni di CO2; revisione del sistema degli incentivi per l’efficienza energetica, revisione delle tariffe sui rifiuti indifferenziati e sull’acqua; tributi di scopo per la lotta alla povertà energetica.

MIGLIAIA DI MW POSSONO ESSERE ASSEGNATI agli impianti eolici offshore e solari a terra in aree dismesse o da bonificare. Lo sviluppo delle comunità energetiche deve prevedere la creazione di un fondo di garanzia per l’accesso al credito da parte di famiglie ed imprese. Il superbonus va supportato almeno fino al 2025 ma deve essere prevista una revisione dei criteri per una più corretta ed efficace promozione dell’efficienza energetica.

Nel settore dell’automotive non possono essere accettate proposte generiche relative alle politiche per il lavoro, alla fragilità sociale ed economica e alla coesione territoriale. La problematicità e le dimensioni della riconversione sono talmente significative che andrebbero avviate subito, per evitare effetti regressivi. Le ferrovie sono un pezzo della transizione è vero, ma è giusto dire che occorre negli investimenti anche una attenzione alle città e alla loro mobilità interna, della quale ad oggi non vi è traccia. Il tema idrogeno, di sicura importanza nel processo di decarbonizzazione, non può prevedere somme (oltretutto limitate) assegnate ad azioni generiche e onnicomprensive: occorre specificare programmi, investimenti, cronoprogrammi coerenti fra loro, ma specifici per produzione, distribuzione, utilizzo, distretti industriali.