In questi ultimi anni abbiamo assistito alla riscoperta di quell’«italiano sbagliato», come lui stesso si definì in un’intervista, corrispondente al nome di Pier Antonio Quarantotti Gambini, riscoperta culminata con la pubblicazione nel 2015 delle Opere scelte nei «Classici della letteratura» di Bompiani, libro-monstre di oltre 1500 pagine curato da Mauro Covacich. Si aveva così l’opportunità di misurarsi con quelli che sono ritenuti i suoi capolavori, a cominciare dal romanzo L’onda dell’incrociatore (1947), il cui titolo fu trovato da Umberto Saba, assaporando una fetta d’anguria in piazza Ponterosso a Trieste, per finire con il trittico di racconti I giochi di Norma (1964), passando attraverso le dolorose rievocazioni storiche di Primavera a Trieste (1951). Mancava La calda vita (1958) che un sabiano inoppugnabile come Debenedetti stigmatizzò alla stregua di «libro sbagliato», obbediente a una costruzione «estremamente puntigliosa, congegnata, da orologiaio», il cui giudizio severo andrebbe opportunamente smussato.
Dopo tale iniziativa, a cui si devono idealmente affiancare alcuni contributi esegetici, tra i quali l’intenso saggio di Daniela Picamus Pier Antonio Quarantotti Gambini. Lo scrittore e i suoi editori (Marsilio/IRCI, 2012), la Mondadori ha cominciato a riproporre i singoli titoli del narratore istriano. Dopo Primavera a Trieste, L’onda dell’incrociatore e Amor militare è la volta adesso del romanzo Il cavallo Tripoli («Oscar Moderni», pp. XIV-247, € 13,00), curato da Massimo Raffaeli, che si segnala come uno dei suoi libri più ispirati. La trama, ambientata a Semedella, località poco distante da Capodistria, durante le vicende belliche della tarda estate 1918, è imperniata sulla figura di Paolo, bambino in cui non è difficile ravvisare l’alter ego dell’autore. Il titolo faceva parte di un progetto più articolato, volto a delineare un legame tra microcosmo e macrocosmo arricchito di risonanze epiche, un Bildungsroman fortemente intriso di elementi autobiografici innestati in una dimensione corale, cadenzato in tre sequenze che dovevano corrispondere a infanzia, adolescenza e maturità di Paolo, di cui l’ultima rimasta allo stato di abbozzo.
Seguendo le indicazioni manoscritte dello scrittore, scomparso nel 1965, il fratello Alvise finalizzò il progetto, licenziando nel 1971 Gli anni ciechi nei «Supercoralli» einaudiani che annoveravano alcuni titoli usciti autonomamente ma fortemente correlati tra loro come Le redini bianche, La corsa di Falco (comprendente anche L’imperatore nemico), Il cavallo Tripoli, L’amore di Lupo (rimaneggiamento di Amor militare), I giochi di Norma, integrati da alcuni tasselli inediti come Tre bandiere e Le estati di fuoco. Il risultato fu ammirevole, configurandosi sulla falsariga di una recherche autoctona, edificata sui ricordi di un bambino che scopre il mondo a contatto con i rappresentanti di una genealogia d’antan: non solo nonni, zii, genitori, ma anche il cocchiere Toni e frotte di fanciulli che, al pari di aquiloni, assecondano la bora con i loro movimenti improvvisi, staccandosi con grazia da un fondo di cartapesta dove sfilano cavalli che riverberano il loro carattere ombroso o rasserenante.
A fungere da crinale si collocava dunque Il cavallo Tripoli, apparso originariamente nel 1956 nei «Coralli» di Einaudi, con la riproduzione di Le cheval di Bonnard in copertina. Questo modello, ispirato a un puledro del Circo Medrano, rimanda al corsiero agognato dal piccolo protagonista che dovrebbe rimpiazzare quelli succedutisi nella dimora avita di Semedella, sequestrata da un capitano austriaco il cui figlio, Ghesa, coetaneo di Paolo, condividerà con lui alcuni segreti (ma non le scorribande) sullo sfondo di una natura dai tratti selvaggi e salvifici. Quarantotti Gambini riesce a orchestrare magistralmente gli stati d’animo contrastanti del protagonista nella sua «deriva prepuberale» (Raffaeli), innervandoli lungo la dorsale di un’umanità composita, comprendente contadini, austriacanti, personale di servizio, zagabredan (gli slavi dell’interno). L’«aria sospesa, di sottaciuta attesa degli eventi», di cui parla il curatore nell’introduzione, serpeggia in tutto il romanzo, costituendo una sorta di patina cristallizzata che conserva un nitore di ascendenza metafisica.
Non è un caso che il cavallo che dà il titolo al romanzo sia una presenza più psicologica che reale, caracollante ossessivamente nella fantasia del protagonista prima di apparire fuggevolmente nei capitoli finali (e sparire, suggellando in absentia il suo possesso da parte del bambino). Bisogna considerare d’altronde come la poetica di Quarantotti Gambini sia incardinata sul recupero di un’infanzia e di un’adolescenza contrassegnate da un peculiare connubio tra disciplina e spietatezza. Qui sono da ricercarsi gli esiti più felici dell’autore istriano, in quell’aura favolosa che contraddistingue quasi tutte le sue pagine memorialistiche, laddove bambini e adolescenti sono ritratti in maniera estemporanea e minuziosa, non disgiungendo mai quella compartecipe estraneità al mondo degli adulti che ha punte di ostinata crudeltà.
Non mancano addentellati di taglio psicanalitico, sempre risolti dal narratore con elegante disinvoltura, come quando si descrive il rapporto con Frau Mutter, la madre di Ghesa, depositaria di pulsioni sadiche e autolesionistiche, che si compiace di fustigare il figlio di fronte all’amico o che cerca di adescare Paolo con il suo comportamento ambiguo. Tra repulsione e attrazione, quest’Eden dissacrato, popolato di vecchi soldati macilenti che si trascinano da un’aia all’altra, di ragazzini che estorcono la voce al vento da fenditure marcite di pali telegrafici, di domestiche che cercano per gioco di irretire un recalcitrante Paolo, si incide nella memoria con la stessa rimbaldiana delicatesse con la quale il suo autore si rapportò alla scrittura, memore delle rassicurazioni rivoltegli dal suo mentore Saba: «Ho subito capito che eri qualcuno».