scarperotte

Sulle colline vicino a Fosdinovo, tra boschi e vallate, c’è un bellissimo Museo della Resistenza. Sta in una struttura che venne costruita subito dopo la seconda guerra mondiale dai partigiani garibaldini come colonia estiva per i bambini di Sarzana. Negli anni Settanta venne abbandonata, finché negli anni Novanta fu ideato il museo, concepito da Studio Azzurro come una sorta di opera d’arte audiovisiva. Qui, ogni estate, si è svolto per dieci anni – e questo sarà l’undicesimo – «Fino al cuore della rivolta», il più importante festival della Resistenza d’Italia. Musica, incontri, laboratori, spazio bambini: per una settimana lo spazio museale si riempie di storie e di sguardi, per far sì che la Resistenza sia qualcosa di vivo, e non una celebrazione retorica e impallidita.

L’anticipazione è il 25 aprile, quando diecimila persone affollano il borgo di Fosdinovo per un pranzo sociale, per ascoltare i concerti, ma soprattutto per sentirsi insieme, per ritrovare un legame sociale condiviso, una piccola zona temporaneamente autonoma festante e solidale. Poi, in estate, i cinque-sei giorni al museo. Quest’anno dovremo fare a meno del partigiano che al festival era presenza fissa, Luigi Fiori, comandante fra’ Diavolo, che ci aveva abituato ai suoi irruenti e passionali discorsi in difesa di una Costituzione violata che quelli come lui avevano conquistato. Una storia esemplare, la sua, di un figlio della borghesia che in montagna, dov’era andato per non farsi catturare dai tedeschi, scoprì un altro mondo, e lì pose le basi per un cambiamento di sguardo sul mondo, che sarebbe andato a maturazione, anni più tardi, nella fabbrica dove era dirigente, dove, a contatto con gli operai – la stessa classe sociale con la quale aveva condiviso la lotta partigiana -, sarebbe diventato comunista. L’anno scorso se ne era andata Vanda Bianchi, l’altro «testimonial» del festival, staffetta partigiana che qualche anno fa tutta Italia conobbe, col suo pugno alzato e il suo fazzoletto rosso, nel salotto televisivo di Fazio. Se ne stanno andando uno dopo l’altro, i ragazzi e le ragazze partigiani, ma finché si tengono vive esperienze come quelle di questo festival le loro voci si potranno ancora sentire (verrebbe da citare Ivan Della Mea, che era un altro habitué del festival, quando cantava l’Internazionale di Fortini: «chi ha compagni non morirà»).

Quest’anno però l’organizzazione del festival è in seria difficoltà: sono venuti a mancare una serie di contributi istituzionali che hanno sempre permesso di farcela, e il danno più grave è venuto dall’abolizione delle province. E non è che ci vogliano chissà quanti soldi, questo è un festival low cost, in paragone ad altri eventi: trenta, al massimo quarantamila euro. Per non rischiare che questo sia l’ultimo anno, Archivi della Resistenza (l’associazione che gestisce il museo e organizza il festival) ha deciso di fare un crowdfunding (ma si potrebbe dire più facilmente: una sottoscrizione in rete) sulla piattaforma «Produzioni dal basso»: si punta a raggiungere 5mila euro entro il 31 luglio, e per ogni cifra donata un regalo, da una bottiglia di vino a un’escursione guidata. C’è davvero bisogno dell’appoggio di tutti per resistere, anche perché non si vuole assolutamente rinunciare a uno dei capisaldi del festival, ovvero l’entrata libera a qualsiasi evento. Di volontari che spendono i giorni delle loro vacanze nelle cucine e nel servizio ce ne sono decine, ma non basta: ci vogliono finanziamenti, per quanto gli artisti che arrivano accettano sempre cachet più bassi del solito.

Quest’anno ci saranno alcuni amici storici del festival: Maurizio Maggiani, Dario Vergassola, Ascanio Celestini, Bobo Rondelli, Cisco, e altri ancora (il programma viene reso noto solo negli ultimi giorni, perché, date le condizioni di emergenza, questo festival – dicono gli organizzatori – oltre che low cost è anche last minute). Nel settantesimo anniversario della Liberazione, facciamoci un regalo.