Si poteva non vederlo o non sentirlo per un po’, ma quando riappariva, magari per caso, aveva sempre una bella sorpresa da raccontare: un nuovo libro appena scritto, uno spettacolo teatrale realizzato e assolutamente inusuale, un corso tenuto nella prestigiosa università britannica, la direzione di un istituto culturale italiano all’estero, l’invenzione di un festival degno delle nazioni unite per celebrare e verificare oggi i fulgori della Mitteleuropa che fu, uno dei festival tematici più belli che si sia potuto incontrare, da non poter mancare, almeno finche ne è stato lui direttore.

È STATO UN UOMO di mille risorse Giorgio Pressburger, morto ieri a Trieste, compiuti da poco gli ottant’anni. Una intelligenza vulcanica dietro un riserbo garbato e un’ironia pungente, che mascheravano appena il dolore e il peso di una vita vissuta sempre pericolosamente.

Nato a Budapest nel 1937, famiglia ebreo-slovacca, infanzia sotto l’assedio nazista, giovinezza recisa dall’invasione sovietica del ’56, la fuga con la famiglia a Roma e poi la scelta di Trieste per evidente affinità linguistica e culturale, la morte straziante del fratello gemello la cui narrazione lo rivelerà grande scrittore ai lettori e alla critica. E tutte quelle visioni che non devastavano la fantasia, ma anzi si coagulavano in lui nella grande passione per il teatro, che forse è stato, almeno all’inizio, l’attività per cui è stato più noto alle cronache. Studi all’Accademia Silvio d’Amico, dove poi ha insegnato a diverse generazioni di attori oggi famosi. Sempre con la sua aria burbera o quasi severa, che poi si illuminava nella battuta ironica.

Davvero magistrale è stata la sua attività a Radio Rai, regista all’apparenza «distaccato» come vi fosse estraneo.
In realtà, forte dell’esperienza al mitico studio milanese di fonologia musicale dove si era misurato con Maderna e Berio, anche a via Asiago era un fantasioso e quasi maniacale perfezionismo a tenerlo attaccato alle cuffie (chi scrive può testimoniare di lunghe sedute in studio durate giorni e giorni, per creare con Callas Casta diva, semplicemente la sigla di un racconto in cento brevi puntate sull’opera lirica).

PERFEZIONISTA e testardo. Non fu solo con l’apprezzamento generale per gli spettacoli teatrali (tra i molti una memorabile Brocca rotta kleistiana, un potente Calderon dell’amatissimo Pasolini che poi divenne anche un film, ma anche kolossal di una sola sera come La commedia della vanità di Elias Canetti) che riuscì a convincere un politico spregiudicato e avvertito come De Michelis, allora ministro degli esteri, a investire in una iniziativa culturale esplosiva, nel 1990.
I muri erano appena caduti, ma nessuno pareva sentire il bisogno di ricucire e rinfrancare, dandogli visibilità, quello che quegli stessi muri avevano fino ad allora separato, recluso o cancellato. Dalla necessità di riprendere le fila di quella cultura fatta a pezzi stagni dopo la fine dell’impero austroungarico, nacque a Cividale Mittelfest: per diverse estati Pressburger ha raccolto in quella deliziosa cittadina longobarda il meglio di artisti e teste pensanti di tutta l’Europa centrale.

Per le strade, i palcoscenici e le osterie il pubblico italiano ha potuto incontrare Georg Tabori e Tamas Ascher, Peter Esterhazy e Claudio Magris, Jiri Menzel e Otomar Krejca, Krysztof Zanussi e Kristian Lupa e Biljana Srbrjlianovic. Fu un’invenzione geniale, mai eguagliata nella festivalogia pretestuosa dilagata ora in Italia. E non sarà l’unico motivo per cui Pressburger verrà ricordato a lungo.