Peppino è quello che fa le consegne. Lavora per un ristorante tipico sardo, «Il Nuraghe Blu», che prima era specializzato in cucina pugliese e si chiamava «Il Trullo Nero». Ogni notte attraversa Roma, prendendo autobus e tram per consegnare ai clienti la sua merce, con in mano un bustone con il logo della trattoria.

Peppino è praticamente invisibile, sa come vestirsi e come comportarsi per non farsi notare. Eppure non è piccolo e minuto, anzi è sovrappeso e ha una faccia da bambino. E poi parla. Ininterrottamente. Sembra che parli da solo, del resto è un po’ strano, un po’ «lentarello» – e lui ne è perfettamente consapevole – potrebbe essere scambiato per una sorta di Forrest Gump sardo. Sì perché anche se non è nato in Sardegna è lì che ha passato tutta la sua infanzia e la sua adolescenza. In realtà non parla da solo, parla a Marisa. È a lei che si rivolge, raccontandole il suo presente e ricordando il suo passato. Forse perché, come ha detto un giudice tanti anni prima, lui e Marisa «sono stati partoriti nell’odio e cresciuti nell’indifferenza».

Questo garzone delle consegne, dalla vita segnata dalle disgrazie, è il protagonista e la voce narrante del nuovo romanzo di Francesco Abate, Un posto anche per me (Einaudi, Stile Libero, pp. 226, euro 17,50). È lui, la sua voce che, parlando con Marisa, in realtà racconta al lettore la sua storia. La storia di uno degli ultimi, di quelle persone che vivono ai margini della società, invisibili e sfruttate. Una storia che è iniziata in una Sardegna antica e allo stesso tempo segnata dalla modernità, tra tradizione e cinismo, tra comprensione e rapacità. Dove si incontrano santi-eroi come Sant’Efisio e contabbandieri, «cuccurus cottus» e suore contadine. Ed emerge tutta una serie di straordinari personaggi. Innanzi tutto i parenti di Peppino: zii e cugini, nonni giovani e nonni vecchi. E poi preti e monache, e i compagni dell’istituto: i Difettosi, oggi li chiameremo i diversamente abili, i bulli capitanati da Calabrese e, su tutti, Marisa. Il tutto raccontato da Peppino con voce umanissima e precisa, ma allo stesso tempo poetica e quasi sognante. Una voce che, pur senza perdere tali caratteristiche, diviene più secca e tagliente nel narrare le avventure notturne del garzone delle consegne. I suoi tragitti tra «un punto A e un punto B» della capitale e le partenze e i ritorni a Pomezia. Una voce in grado di offrire un ritratto preciso della città, duro e tenero. Raccontando di quartieri eleganti e periferie degradate. Di clienti gentili e arroganti. Di immigrati e di malavitosi. Di autisti di tram, di artisti, di debosciati, di ladri, di cameriere. E poi di amicizia vera e di solidarietà fasulla. Di violenza, di sogni, di disperazione. Situazioni, sentimenti, passioni su cui si stagliano personaggi indimenticabili, nel bene e nel male, come signor Cambazzu, Zio Mino, Wahid.

Il tutto raccontato in modo tale da innescare un rapporto quasi di identificazione con il protagonista, che fa venire in mente, più che altri romanzi dedicati agli ultimi, alcune bellissime canzoni di Francesco Guccini e soprattutto di Fabrizio De Andrè. Tanto che chiudendo il libro sembrano quasi risuonare in testa le parole che chiudono Via del campo: «dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior». Del resto anche la storia di Peppino ha una propria colonna sonora, rintracciabile sul canale YouTube di Einaudi editore.