Chi ha perso piange ma non troppo. Chi ha vinto ride, però a denti stretti. In parte è la tipica abitudine italiana ad accreditarsi sempre la vittoria, ma in parte il discorso è più complesso. Anche perché quando Renzi dichiara che «è finita 70 a 30», arruolando d’autorità l’intero astensionismo, esagera di molto e lo sa.

Alla fine dei conti ha votato il 31,2% degli aventi diritto, pari a quasi 16 milioni di elettori, e i sì hanno stravinto con l’85,4%. Il numero dei votanti è solo leggermente più basso di quello che i referendari avrebbero salutato come una vittoria politica prima dello scandalo Tempa Rossa. E’ vero che poi, nei giorni roventi del fattaccio, i sondaggi parlavano di una percentuale lievitata fino al 37-38%, ma la mossa furba del premier, quella di posticipare il dibattito sulle mozioni di sfiducia per evitare riflessi sul voto referendario, ha avuto successo. Non a caso la Basilicata, la regione di Tempa Rossa, è l’unica dove il quorum sia stato raggiunto, con il 50,32% di affluenza.

La variegata opposizione è convinta che, nella stragrande maggioranza, quelli che hanno votato intendevano dire un no tondo a Renzi. Se questo è vero, significa che nella sfida sul referendum costituzionale i sostenitori del no alla riforma partono da una base certamente robusta. Per superarli Renzi avrà bisogno di un’affluenza quasi eccezionale. Nel 2006, con al vaglio la riforma del centrodestra, votò il 52,46%, pari a poco più di 26 milioni di elettori, nel 2001, sulla riforma del Titolo V varata dal centrosinistra, partecipò appena il 34,10% . Renzi dovrà fare molto meglio, e se insiste tanto sul plebiscito, come ha fatto di nuovo ieri sera («Riguarda la Costituzione non me, ma se perdo vado a casa») è perché lo sa perfettamente.

Però se nella conferenza stampa allestita pochi minuti dopo la chiusura delle urne il premier ha sfoggiato una retorica iper-ambientalista (contraddetta in realtà dal taglio drastico degli investimenti per le rinnovabili) non è stato solo e neppure soprattutto per recuperare i voti dell’elettorato di sinistra in quel referendum. Incombe una scadenza molto più prossima, quella delle comunali. Uno scontro come quello del referendum, nel quale palazzo Chigi ha abbondato in trucchi e scorrettezze, non può non lasciare ferite aperte che di qui al 5 giugno difficilmente si rimargineranno. Si può stare certi che il «ciaone» del senatore Carbone ha irritato proprio Renzi più di chiunque altro. E tuttavia nemmeno lui, nonostante fosse palesemente cosciente di dover recuperare un’area di sinistra che alle comunali potrebbe fare la differenza, ha resistito alla tentazione arrogante di affibbiare sganassoni a destra e soprattutto a manca.

Da questo punto di vista l’analisi del voto di domenica scomposto è il vero elemento per lui inquietante. La sorpresa uscita dalle urne è infatti la percentuale di votanti nel nord, decisamente superiore al previsto a differenza di quella del sud, che in molte regioni è invece inferiore. In Veneto ha votato il 37,88% ma il guaio è che anche in Lombardia, col 30,47%, l’affluenza è stata alta, trattandosi di una di quelle regioni che “il mare lo vedono solo in cartolina”, e in Piemonte è arrivata al 32,73%, il 36,4 a Torino.

Potrebbe trattarsi di un segnale preoccupante per le piazze di Milano e Torino, dove per Renzi è fondamentale vincere. La sconfitta a Napoli è data per certa, a Roma per probabile. Ma se dovessero cadere le piazze del nord, soprattutto Milano – dove il ballottaggio tra Sala e Parisi è certo e a fare la differenza saranno gli elettori dell’M5S – il guaio sarebbe enorme.

Per Renzi ci sono altri due fondati motivi di preoccupazione. Anche se ovviamente il diretto interessato nega, il governatore della Puglia Emiliano sembra proprio aver usato il referendum anche come trampolino di lancio verso l’assunzione della leadership della minoranza Pd. Sarebbe un rivale ben più pericoloso degli attuali dirigenti dell’opposizione interna. Il capo lo sa. Per questo lo ha attaccato frontalmente nel comizio notturno e di nuovo ieri: «Le regioni pensino a tenere il mare pulito». Emiliano però non esce male dalla prova. In Puglia ha votato il 41,6%, pari a 1.300.000 voti, mezzo milione in più di quelli che aveva incamerato l’ex sindaco di Bari alle Regionali. L’ultimo cruccio è che la legge confermata dal referendum viola le direttive Ue sui termini delle concessioni, e la presidente di Si al Senato Loredana De Petris ha ieri sporto denuncia. La procedura d’infrazione sarebbe un danno d’immagine notevole.

A fronte di queste preoccupazioni, Renzi ha un solo motivo di vera soddisfazione, però enorme. Ha affrontato la sfida in una situazione difficile e pericolante. Una sconfitta lo avrebbe bollato come leader già al tramonto. Il successo gli restituisce in pieno l’aura del vincitore, smorza il dibattito sulle mozioni di sfiducia di oggi e gli permette di affrontare da una posizione di relativa forza le due mani decisive dell’anno: le comunali e il referendum costituzionale.