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L’orma editore continua opportunamente la pubblicazione delle opere di Irmgard Keun; dopo il fortunato Gilgi, una di noi, giunge ora in libreria Doris, la ragazza misto seta (nella vivace traduzione di Vins Gallico, pp. 198, euro 16). Il romanzo uscì nel 1932, ottenendo un vasto successo in Germania. Come spesso accadeva in quei tempi per opere acute o pungenti (basti pensare a ciò che accadde in Francia con l’esordio di Irene Nemirovsky: il crudele David Golder) vari giornali dissero che non poteva essere della giovane scrittrice.

BERLINO fu uno dei laboratori fondamentali negli anni ’20 per la ridefinizione del ruolo della donna nella società europea, come ben riassumeva la mirabile mostra dello scorso anno allo StadtMuseum, Berlin Stadt der Frauen. Doris arriva nella metropoli fuggendo da una situazione provinciale che la soffoca, da una vita familiare fatta di umiliazioni, in cui il padre le estorce ogni mese buona parte della sua misera paga per spenderla all’osteria. La madre, che lavora in teatro, suggerisce alla sua rampolla che quella sia la direzione per cercare miglior fortuna. Inizia così per la «ragazza misto seta», sempre intenta a sognare una esistenza migliore, una vera e propria odissea da una sala all’altra, tra il music-hall e i set cinematografici.

NEL FRATTEMPO il sogno di gloria si infrange contro una realtà assai diversa e più violenta. A lei tocca di compiere il mestiere di tutte le signorine che vogliono l’indipendenza economica, la dattilografa, lavoro allo stesso tempo salvifico e rischioso, come aveva rivelato al mondo una volta per tutte, Grand Hotel di Vicki Baum (1929), massimo bestseller del periodo, in cui brillano le battute acuminate della bella Flaemmchen, incarnata sullo schermo da Joan Crawford.

Doris, passando da un uomo all’altro, si dedica, finché non è esausta, a un vero e proprio corpo a corpo con la città, che prima le fa balenare possibili trionfi e poi la mette alle corde. Quando è stanca, le resta solo di girare alla ricerca di un po’ di conforto, contando su quei «tre minuti al giorno in cui le persone sono buone» e lottando con i tempi lunghissimi in cui tutti invece sono aggressivi, scontrosi, malevoli. La riflessione costante, continua, mentre gira per le strade la pone di fronte a interrogativi senza soluzione. Oscillante è il suo desiderio di conformarsi, a cui segue l’orrore per la standardizzata vita d’ufficio.

A QUESTO TEMA dedica riflessioni aguzze come quelle del classico della sociologia, Gli impiegati di Siegfried Kracauer, uscito nel 1932, insistendo sulla omologazione, sui ritmi di una vita alienata. Infine, fa il punto su tutte le opzioni possibili della sua esistenza, visto che di lavorare non ha tanta voglia e ha ormai ben compreso che «anche se non sei una stella non è tanto grave». L’ultima scena sembra pronta per essere trasformata in un film, come accadde, ma molto più tardi, per opera di Julien Duvivier nel 1960. In italiano si intitolò La gran vita; il ruolo di Doris andò a Giulietta Masina.