«Di fronte all’irrazionalità del mondo, così come va» disobbedire dovrebbe essere «un’evidenza». Allora perché non accade? Abbiamo forse, definitivamente, accettato l’inaccettabile? Inizia con questo dubbio amaro l’ultimo, importante, libro di Frédéric Gros (Dés)obeir (Albin Michel, pp.265, euro 19). E tuttavia l’incipit vale solo per essere immediatamente capovolto: emerge piuttosto l’urgenza di scartare, en philosophe, quelle lamentazioni sulla passività diffusa e sull’assenza di conflitti che tanto successo registrano nello sproloquio mainstream. Esempi di lotte, dice subito l’autore, certo non mancano, impossibile ignorarle.

MA QUI SI RAGIONA in punta di teoria, a monte delle esplosioni di dissenso, per comprendere le ragioni della disobbedienza all’interno di una «stilistica dell’obbedienza». Geniale inversione: sottomissione, conformismo, subordinazione, deresponsabilizzazione, consenso, diventano così punti di frizione solcati dai loro contrari – ribellione, resistenza, trasgressione, conflitto tragico, responsabilità, indelegabilità dell’azione soggettiva.
A ogni nucleo tematico – e sullo sfondo della lezione dell’ultimo Michel Foucault – l’autore fa corrispondere l’analisi elegante di alcune delle figure maggiori del nostro pensiero: Socrate e Aristotele; i filosofi cinici e gli scettici; La Boétie e il Bartebly di Melleville; l’Antigone dei filosofi e il Kant illuminista; lo scandalo di Dostoevskij e la banalità del male di Hanna Arendt; e poi ancora Thoreau, Gandhi, Martin Luther King e così via.

Obbedienza e disobbedienza fanno chiasma, si è detto. Pensare questo rapporto è possibile, se così si può dire, solo dal basso: la costruzione del soggetto etico-politico, infatti, spezza ogni astratto determinismo psicologico, sociale, storico e mostra una serie di possibili «variazioni di stile» nella soggettivazione. «Obbedire, disobbedire – scrive Gros – significa sempre dar forma alla propria libertà». Il testo capovolge il paradigma canonico della filosofia morale: è dentro alla microfisica del potere che le singolarità libere si costruiscono. L’etica abita infatti un décalage che apre il soggetto: non più «entità fissa, unitaria», ma «due-in-uno», campo di forze, spazio aporetico nel quale vibrano tutti i problemi legati alla cura di sé.
Ciò significa riconoscere l’urgenza indelegabile di una vita degna come anteriorità logica della disobbedienza rispetto all’obbligazione.

IL PARADIGMA INIZIALE è quello della sottomissione. Da qui scocca una freccia che avvelena le teorie del «patto repubblicano» attraversando tutte le forme istituzionali. Secondo Gros, quando il contratto sociale viene evocato come origine mitica, quando acconsentire diventa una «metafisica» della convivenza civile, allora la costruzione politica non può che ridursi a sistematica normalizzazione di ogni dissenso, mascheramento di una realtà sempre più permeata «dall’ingiustizia e dalla violenza». Il coraggio di chiamare con il suo nome questa strategia – sottomissione, morale da schiavi – aiuta in questo caso ad orientarsi nel mondo. Bisogna stare all’erta: l’estensione illimitata del concetto di sottomissione, spiega Gros, è ambigua in quanto «funziona allo stesso tempo come vettore di demistificazione politica e di mistificazione etica». Il soggetto sottomesso, infatti, non interiorizza mai del tutto la sua servitù. Al massimo la sopporta.

Diciamolo meglio: la sottomissione – come qualsivoglia forma di obbedienza – è sempre «un rapporto di forze storico», dunque precario, arbitrario, contingente, «reversibile». Il coraggio di sapere e la riflessione critica che si producono dentro alle relazioni intersoggettive presuppongono la possibilità di pratiche che «fanno tremare l’idea stessa di un ordine (…) e inquietano definitivamente le gerarchie e i valori». Insistiamo: la serie della disobbedienza qui non è esterna a quella dell’obbedienza, non segue il filo di un’altra ragione, ma scava dall’interno il polo del comando, come sua aporia indissociabile e necessaria. La sola forma di obbligazione moralmente accettabile è quella che accoglie «la possibilità generale di disobbedire all’interno della stessa forma etica dell’obbedienza». La foucaultiana cura di sé non ha nulla del «ripiegamento narcisistico», niente di puramente individualistico, di cui a volte leggiamo: la solitudine, dice il testo, è un’illusione. L’espressione cura di sé designa semplicemente quel «fondo» etico a partire dal quale ci si autorizza «ad accettare o rifiutare tale ordine, tale decisione, tale azione».

LA RICERCA a questo punto compie un salto decisivo. Siamo tutti cresciuti studiando i critici della democrazia, dice l’autore, si apre adesso il tempo della democrazia critica. Qui Gros si avvicina ad alcune suggestioni della filosofia francese contemporanea – si pensi alla rivalutazione degli universali, proposta di recente da Etienne Balibar – e allude a un illuminismo critico e potente: il filosofo vuole riscoprire la natura «esplosiva, segretamente sovversiva» della tradizione contrattualistica, la struttura «circospetta e provvisoria» dei patti che fondano gli ordinamenti politici moderni, sempre esposti alla riattivazione continua dei conflitti e delle rivolte. La democrazia – dice Gros – non è una procedura, né una pura forma giuridica: «non un regime politico tra altri ma un processo critico che li attraversa tutti».
A questo punto, tuttavia, il metodo scelto mostra il suo limite. L’autore lo sa bene e lo riconosce: il piano della discussione si è fatto «troppo sottile» rispetto ai nodi scoperti dall’analisi. Rischiamo di restare costretti «in quel passaggio stretto dietro al quale si riconosce l’antica coscienza». Per accogliere lo spessore dell’impresa sarebbe necessario esplorare le dimensioni «di una organizzazione sociale», dacché solo nella «co-vibrazione dei sé indelegabili si tengono l’urgenza e l’onore eterni, intempestivi, della vera politica, quella delle disobbedienze». Ma il testo esita, resta sospeso, non scioglie il nodo, si limita a evocare nella trama dell’esperienza soggettiva il riflesso ribaltato di una dissidenza che sappia farsi «cuore delle rivoluzioni».

LA CONCLUSIONE è platonica: l’inizio della Repubblica, laddove Socrate, incalzato dai giovani, dice: per comprendere il nostro problema bisognerebbe «farsi costruttori di città». Qui la ricerca andrebbe forse riaperta, la soglia del soggetto superata. Come dire: l’etica dovrebbe distendersi in ontologia sociale, l’ontologia farsi politica, la dinamica del soggetto articolarsi in una rete di incontri e relazioni cooperative e costituenti. Non si tratta più, infatti, di forze che agiscono sul soggetto dall’esterno ma del corpo esteso, immanente, di ogni costituzione di singolarità. Sia chiaro però: queste pagine restano preziose. Désobeir si legge come un libro di filosofia classica. Coraggioso e disobbediente, come ogni buona filosofia.