Ali Eskandarian Song

«Il romanzo che avete fra le mani è un gesto d’amore, nel nome e secondo la tradizione di tutti i rapporti editoriali nati sui confini più estremi della letteratura… La prosa, per lo più, è rimasta come Ali l’aveva scritta… Questo amore per la lingua e i suoi ritmi e la capacità di catturare il caos musicale della vita rappresentano l’integrità essenziale del libro, il suo cuore pulsante». Così scrive Lee Brackstone, editor di Faber Social, alla fine di Golden Years, il grande romanzo iraniano-americano di Ali Eskandarian pubblicato in Italia da Giunti nella bella traduzione di Roberto Serrai (PP. 224, EURO 17).

Il titolo è del suo editore olandese, Oscar van Gelderen, ma ad Ali piaceva perché richiama David Bowie e il rock’n’roll, e viene pure bene stampato (peccato per la brutta copertina dell’edizione italiana!): nelle parole dell’autore, Golden Years è la storia di un «immigrato, cresciuto durante la guerra, rock’n’roller, un artista che cerca di sopravvivere in un mondo moderno che trova irritante/esaltante. La scrittura ha un sottotesto politico, ribelle e c’è pure un sacco di sesso droga e rock’n’roll». C’è anche molta strada, la stessa di Kerouac che Ali invoca contemplando l’Oceano Pacifico: migliaia di km a zigzag per gli States, in tour con gli Yellow Dogs, in viaggio con fidanzate e amanti, o allo sbando, in un lungo lost weekend a Los Angeles, Dallas e New York.

Musicista, cantautore e scrittore, Ali Eskandarian era nato a Pensacola, in Florida, nel 1978, e cresciuto a Teheran durante la rivoluzione, prima di fuggire nell’89 con la famiglia in Francia e poi in Texas nel ‘92. Quel lungo viaggio iniziò con un volo Alitalia per Fiumicino: «All’aeroporto Leonardo da Vinci pagammo cifre astronomiche per dei panini al salame. Signore e Signori, è tutto quello che ricordo di aver capito dagli altoparlanti», scrive nel capitolo dedicato all’Europa.

Ali non ha potuto vedere come l’editor della Faber ha rimodellato la sua prosa cruda e visionaria nella «prima stesura di un libro che brulicava di vita, amore, sesso e dell’ambizione di un’eterna giovinezza»: l’11 novembre 2013 a New York Ali Akbar Rafie, ex componente del gruppo Free Keys, andò nella casa dove Ali viveva con i suoi amici musicisti degli Yellow Dogs e sparò uccidendo lui e i due fratelli Farazmand e ferendo un’altra persona. Si chiusero così nel sangue quegli anni d’oro iniziati nell’innocenza dell’ambizione e con la voglia di rimboccarsi le maniche.

«Perché non lasci perdere questi processi mentali alcolici, da tossico, e segui il vero ritmo della strada?», si chiede verso la fine del memoir. «Non importa per le strade di quale città cammini, la vecchia Alessandria, Damasco, Roma, San Francisco: devi aggiustare te stesso», si dice. Quando è morto a 35 anni, Ali Eskandarian non si era ancora aggiustato: sapeva però che al mondo devono esserci persone come lui, che mettono in dubbio le cose, che bruciano e desiderano.

La sua prosa è impellente ed esaltante quando descrive la furiosa determinazione ad autodistruggersi consumando droghe in modo industriale, la fame bulimica di vita ed esperienze, come se non ci fosse realtà oltre all’abuso di sé, ma anche nelle disavventure da outsider proveniente da un mondo antico, svezzato e vaccinato dai facili idealismi occidentali, forte della sua cultura plurimillenaria. Nel capitolo «Dallas» le pagine sugli anni 2000 («a quel punto già si capiva che il decennio era una fregatura») fino all’elezione di Obama fanno riflettere oggi che quell’epoca si è conclusa: «Tutti i miei amici volevano un pezzetto di Sogno Americano, o almeno dargli un’ultima occhiata, anche se era morto. Certo i bastardi quella volta se li erano intortati per bene, pensai. Adesso è tutto finito, poco ma sicuro», scrive con lucidità.

«So che sono già stato qui e ho scritto cose su papiro e pergamena, cera e cartapecora. Su legno, terracotta e tavolette di pietra. So che ho cercato nelle biblioteche perdute di Baghdad e Alessandria… perché non ricordo una sola parola? Ahimé, sono un uomo moderno… devo ridurmi a trovare lavori senza senso in città senza senso», conclude stanco quasi alla fine del viaggio, prima di lasciarci con parole inaspettatamente ottimiste nella loro magnifica disillusione.