Due cineaste di generazioni diverse, caratterizzate dall’impegno politico, Cecilia Mangini e Mariangela Barbanente, nate nello stesso paese della Puglia, Mola di Bari. Insieme intraprendono un viaggio sui luoghi che Cecilia Mangini visitò con i suoi suoi documentari negli anni ’60 con il marito Lino Dal Frà e il gruppo di Ernesto De Martino, a svelare un mondo due volte cancellato, la condizione della donna e il sud. Il faccia a faccia con il passato lo vediamo attraverso film come “Brindisi ’66”, “Monteshell”, “Tommaso”(’67),l’elettrotecnico che voleva trovare lavoro per comprarsi una moto come si deve e che incontriamo oggi che è pensionato. Mariangela Barbanente impegnata come assessore all’urbanistica oltre che come cineasta (nel suo ultimo “Ferrhotel”, in un albergo occupato da emigrati ha raccontato una entusiasmante storia di riscatto sociale) è la voce della nuova generazione («le nostre certezze si sono sgretolate»)
L’occasione di “In viaggio con Cecilia” che inaugura il festival dei Popoli sabato 30 al Cinema Odeon (ore 15) è stata la mobilitazione dell’Ilva e la chiusura degli stabilimenti per ordinanza del giudice. Negli anni precedenti i documentaristi erano già intervenuti con lavori di durissima denuncia, come quelli di Pippo Mezzapesa sul Petrolchimico di Brindisi ed era sorprendente che tutto fosse rimasto immobile.
Entrate in terra di Bari, all’avvistamento del ponte romano, le immagini delle raccoglitrici di ulive di scene girate cinquant’anni fa riportano a una terra che non conosceva l’industrializzazione, una promessa di prosperità mantenuta poi a caro prezzo. Taranto è stato il simbolo di quella trasformazione: ora che gli altiforni sono chiusi e negli occhi degli operai si registra la lucentezza delle lacrime trattenute per la disperazione di un futuro oscuro, forse si può fare un bilancio dei costi e ricavi di quella trasformazione che ha reso l’aria pestifera. Le riflessioni degli operai ai cancelli dimostrano che professionalità e coscienza di classe è stato uno dei risultati, una generazione che ha lottato per ottenere leggi che oggi sono tutte rimesse in discussione. Gli stessi volti decisi di trent’anni prima li incontriamo ancora oggi e non hanno perduto niente della loro sicurezza nel condannare un padrone che crede di essere un imprenditore e i politici assenti. Da braccianti sottoccupati indifesi quali sarebbero forse diventati, si sono trovati oggi nella stessa situazione contro un altro padrone, ma almeno uniti. Cecilia Mangini è costernata di fronte a un certo grado di passività, alla mancanza di quei «dati certi» che hanno fatto affermare alla proprietà, sicura di essere creduti in un’epoca in cui la menzogna è legge, che non è certo l’inquinamento la causa dei tumori in città. Così galleggia nel vuoto il caso di mobbing, l’operaio mandato in isolamento come fosse alla Cayenna, tre volte licenziato per aver denunciato e tre volte uscito vincitore. E restano senza risarcimento i morti due volte a Brindisi, per il profitto e per la prescrizione. Eppure quelle industrie erano il simbolo della rivincita contro chi avrebbe voluto che il sud restasse dimenticato e in uno stato miserabile di arretratezza.
Anche Brindisi, dove oggi lavora un sesto degli operai assunti negli anni sessanta, un po’ alla volta sta assumento l’aspetto di città postindustriale. Niente di fatto neanche sul piano delle denunce di morte «Quei morti sono morti per niente» dice il figlio di un operaio ricordando la rabbia del padre che, ammalatosi di tumore poco dopo la pensione, non riuscì ad arrivare neanche al giudizio. «Tu non puoi dire che queste morti sono legate all’ambiente, potresti essere denunciato » afferma cautamente il primario di cardiologia, pur confermando che aumentano l’incidenza dei bambini nati con malformazioni.

E come pesci in un acquario i ragazzi della movida brindisina che dalla vita non aspettano nulla, come poppanti di caipirinha, sono il simbolo di una città morta. Cecilia Mangini dice di non capire perché quel malessere si esprime solo «passeggiando per le strade». Ricorda che la lenta trasformazione che ha portato all’abbattimento dei diritti, al cambiamento dello statuto dei lavoratori fino all’ipotesi di cambiare la costituzione, un lento processo che Fortini definiva «l’Italia fascista in camicia bianca» se fosse avvenuta non poco alla volta in trent’anni ma in tre anni, avrebbe portato alla rivoluzione. La sua passione militante che si è conservata intatta nel tempo, rischia di non essere compresa dalla nuova generazione. Bisogna dire che siamo andati oltre anche al fascismo in camicia bianca, arrivati a uno stato di guerra con morti e feriti, un nemico invisibile e nessuna organizzazione strategica.