Oltre le mura dell’impresa (DeriveApprodi, pp. 220, pp. 18), curato da Aldo Bonomi, è uno strumento di conoscenza sulla «neo-industrializzazione» in corso anche in Italia. Il libro racconta la riorganizzazione delle filiere della produzione di beni e servizi e l’emersione di nuove industrie che incorporano la sfera della riproduzione sociale e umana.

Nell’introduzione e negli articoli di Bonomi e nei saggi di Simone Bertolino, Salvatore Cominu, Albina Gusmeroli e Luca Romano, si rispecchiano le ricerche quarantennali del Consorzio Aaster sulle nuove economie urbane di Milano, Torino, Bologna e molte altre città medie. Le loro economie saranno al centro dello sviluppo ineguale basato più sulla «competitività» che su una politica industriale prospettata dal «piano di ripresa e resilienza». La questione più rilevante è la logica produttiva e politica che sarà adottata: quella della «piattaforma». Il concetto è stato tratto dagli autori dall’economia digitale e applicato, in forma ibrida, ai territori e alla dimensione costitutiva dell’economia dei «diversi Nord» in Italia, quelli basati su tradizioni diverse del capitalismo molecolare e di quello dei distretti collegati alle catene del valore e alle filiere transnazionali della subfornitura.

QUESTA È LA STORIA dei prossimi dieci anni raccontata in maniera documentata, e a tratti suggestiva, a partire da Milano e dalla Lombardia, da Torino e dal Piemonte, da alcune aree del Nord Est e nella macroregione chiamata «Lover» (Lombardia, Veneto e Emilia Romagna).

La nuova geoeconomia mobile e creativa è spiegata a partire dal processo di «piattaformizzazione», ovvero la trasformazione dei territori in aggregati di flussi e di luoghi, comunità e istituzioni, imprese e dimensione civica. Non c’è dunque solo Amazon e il suo impero che ha disseminato hub e magazzini ovunque. La «piattaformizzazione» investe l’intera economia manifatturiera e dei servizi, lo spazio urbano e quello delle relazioni, usando gli strumenti dell’economia digitale.

Il «neo-industrialismo» è oggi un mix tra il vecchio fordismo e l’eredità del ciclo post-fordista emerso tra gli anni Settanta e l’inizio del nuovo millennio. La base produttiva è assicurata da un «neo-taylorismo a base digitale», definito anche «fordismo desocializzato» che non ha nulla a che vedere con i «trent’anni gloriosi del Welfare».

Osservazioni acute che confermano il dato strutturale della rivoluzione in corso oltre le idiozie propagandistiche persistenti. Il digitale è una trasformazione logistica della produzione di dati, beni e servizi che ha bisogno di una manodopera servile che lavora di più, ed è pagata peggio, al di là di ogni tutela e garanzia. Un vasto proletariato senza identità, apolitico e sprofondato nell’antropologia neoliberale dell’imprenditore di se stesso in un’economia del basso valore aggiunto. Qui non si parla solo dei rider, ma di una zona grigia amplissima tra il contratto, la partita iva, la ritenuta d’acconto e il lavoro in nero. L’Italia è altamente specializzata nel governo di questa forza lavoro.

LA POLITICA e l’impresa l’hanno alimentata negli ultimi 40 anni, anche se le sue radici sono storiche. Oggi questo è il primo bacino dal quale attinge il nuovo il capitalismo, ovunque, non solo nelle grandi città, ed è trasversale alle classi medio-basse. La scommessa del capitalismo digitale è data oggi per vinta. Nessuno è ritenuto capace di opporsi, è come il destino nei classici greco-romani. Le «comunità del rancore», e gli imprenditori della paura e del razzismo, proliferano in una società basata sul revanscismo e il neoplebeismo delle classi medie impoverite.

LA DESCRIZIONE dei processi produce di solito nella cultura impolitica italiana la tentazione dell’esodo o della depressione. Il libro, invece, si sottrae al contraccolpo dell’idealismo e alla psicologizzazione egolatrica della realtà e suggerisce una via pragmatica alla mediazione tra flussi e luoghi. Bonomi lo definisce «umanesimo digitale»: «una capacità diffusa della comunità di cura» che si «condensa nelle organizzazioni sociali e contamina la comunità operosa degli interessi imprenditoriali». «Senza il riconoscimento, e non l’incorporazione tecnocratica, dell’intelligenza sociale diffusa non ci sarà uno sviluppo sostenibile». È aperta la discussione su quali saranno alleanze di classe e il modo in cui è possibile esprimere la forza politica capace di imporre tale riconoscimento.