Mela zeta (Nottetempo, pp. 123, euro 13,50) è il titolo dell’ultimo e bellissimo libro di Ginevra Bompiani. L’allusione è inequivocabile visto che, nella tecnologia Apple, la combinazione dei tasti mela e zeta fornisce la sicurezza di poter annullare le operazioni appena compiute: tornare indietro, un’eventualità che per la condizione umana non è plausibile se non nella contrattazione della memoria.

Quando si tratta di ciò che è accaduto, intimamente, non si è in presenza solo di se stessi, davanti a uno schermo in cui il refuso pretende di essere corretto. Quando le cose sono accadute, a mettersi di traverso è la necessità del dato. Con Mela zeta Ginevra Bompiani compie però un ulteriore procedimento. Si colloca nel genere del memoir per avviare una verticale meditazione sul tempo e sul linguaggio.

Il mondo non è una totalità di fatti, o il semplice riferirsi ai dati e alle riparazioni, bensì è terreno in cui ci si cala a capofitto attraverso i punti di rottura. Quelli in cui a germogliare è una differenza, del senso interno ed esterno. E delle parole per dirlo.

NELLE EPIFANIE, che spesso accecano e rendono muti, Bompiani accoglie allora alcune relazioni dirimenti per sé e per la curvatura della propria esistenza. Il ritratto è di una straordinaria generazione poetica, filosofica e letteraria a cui la scrittrice ha preso parte da protagonista. Si tratta di Elsa Morante, Gilles Deleuze, Giorgio Manganelli, José Bergamín, Anna Maria Ortese, Ingeborg Bachmann. Fulminanti «momenti di essere», mai ordinati secondo un prima e un poi, sono legati al tempo duttile dell’inconscio e a quello cronologico e quindi più organizzato, «riconoscendo un destino là dove, per tutta la vita, non hai visto che un avanzare frettoloso e distratto dal primo vuoto che ti si è creato dentro».

La scrittura di Mela zeta interroga così un’autobiografia complessa per aneddoti, appuntamenti mancati, singole partizioni in cui all’istante della scelta corrisponde il tumulto di aver creduto all’incanto. Elemento che emerge spesso nel racconto intorno a Pepe, il grande poeta e scrittore spagnolo José Bergamin, e dei suoi ultimi anni di vita nei Paesi Baschi, insieme all’intrecciarsi della piccola e salda comunità che lo ha circondato. Punti di non ritorno, come quelli legati alla commozione per l’incontro con Gilles Deleuze, un maestro. E ancora nello scambio con Ortese, o nelle telefonate con Manganelli, la scoperta della morte di Bachmann e il dolore di Morante.

NEL MEZZO STANNO le radure della memoria e altri zettel (foglietti) senza nome. Il più luminoso è inserito nel racconto del viaggio nel 1995 a Srebrenica, con un furgone che attraversa i villaggi devastati dalla guerra. Lì una donna anziana scende per una scarpata, «vestita con suprema, solitaria eleganza», e narra la sua odissea «in una lingua che non capisco, che nessuno traduce, ritta davanti a me, piange e racconta. Il coro tace intorno. E vedo come il mito nasce in lingua straniera». Bompiani comprende quel giorno che «la lingua parla da sé, come una lingua di uccelli, animale, eloquente».

Come Le onde di Virginia Woolf, l’acqua battezza l’intero libro, travolto dai sensi, dai corpi e dall’immagine frontale di qualcosa di ineluttabile, una grande onda che, benevola o no, rappresenta la qualità del senso interno e di ciò che può essere messo in parola senza sbavature. Alle somme lineari si preferisce il tremore dell’esperienza. Imperfetta, abbacinante e proprio per questo prossima.