«Facciamola semplice: dopo Twain e Fitzgerald viene Pynchon, e poi tutti gli altr» – così scriveva meno di un anno fa sul Los Angeles Times David Kipen a proposito del «Grande romanzo americano». Tutte le opere di Thomas Pynchon fanno parte di un enorme e ambizioso progetto narrativo il cui scopo è cartografare l’America e i suoi spazi, la sua storia, le sue ossessioni. Sin dalla pubblicazione, nel lontano 1963, del suo romanzo d’esordio, V. – ora riproposto da Einaudi in un’edizione dalla copertina raffinata, disegnata da Alessandro Baronciani (pp. 648, euro 16,00) – Pynchon è andato componendo, tassello dopo tassello, un immenso puzzle storiografico che si estende dal settecento prerivoluzionario di Mason & Dixon alla New York degli attentati dell’11 settembre 2001, descritta con lucidità disarmante nel suo lavoro più recente, La cresta dell’onda.

Ogni romanzo rappresenta la mappa spazio-temporale di un’America possibile, migliore e peggiore di quella reale, e tutte insieme le sue opere di narrativa costituiscono una sorta di Yoknapatawpha postmoderna, un’immensa planimetria che documenta la traiettoria (quasi mai lineare o progressiva) della storia dell’Occidente – violenta, paranoica, tragica, comica, assurda.
Il romanzo ora ristampato ruota intorno alla ricerca della fantomatica V, che con il moltiplicarsi dei piani spazio-temporali assume significati sempre cangianti, fino a sfociare in una polisemia che coincide con l’insensatezza. La trama di V. alterna una serie di capitoli storici, che spaziano dalla crisi di Fashoda del 1898 ai bombardamenti di Malta del 1942, a una linea narrativa ambientata in America tra la fine del 1955 e il 1956. Agli spostamenti senza meta di Benny Profane, operaio stradale descritto come uno «schlemihl e anche un po’ yo-yo», che arrotonda dando la caccia agli alligatori nelle fogne di New York e frequenta a tempo perso un gruppo di beatnik che si fanno chiamare «La banda dei morbosi», si contrappone la quest di Herbert Stencil, l’intellettuale monomaniaco alla ricerca della misteriosa ed elusiva V, l’entità che costituisce il nucleo vuoto del libro.

Lontano sin dal nome da ogni dimensione sacrale, Profane è uno spettatore che osserva senza mai imparare, un flaneur da supermercato impermeabile alle suggestioni della metropoli. Stencil, al contrario, è ossessionato dalla ricostruzione di una trama onnicomprensiva: spinto dall’impulso di trovare un ordine nascosto nella storia, tutto gli appare collegato e assolutamente significativo, così che il suo atteggiamento assume tratti tipicamente paranoici. Ma V elude tutti coloro che sono alla sua ricerca, compreso il lettore: segno senza referente, iniziale da completare arbitrariamente, V è una donna misteriosa, Vera, o Viola, ma è anche il concetto stesso di femminino; è la regina Vittoria, il topo Veronica, la Venere di Botticelli; è La Valletta, il Venezuela, l’isola di Vulcano, forse addirittura la leggendaria terra di Vheissu – dietro il cui nome si nasconde l’ironia di Pynchon: «V he is u», ovvero, V sei tu, lettore!

A ben guardare, la V del primo romanzo di Pynchon, mentre allude implicitamente alla biforcazione di possibilità narrative spesso contraddittorie che però non si escludono a vicenda, prefigura l’andamento bipartito della sua scrittura: da un lato si allineano i romanzi storici, affreschi enciclopedici come L’arcobaleno della gravità o Contro il giorno, popolati da centinaia di personaggi e ambientati in una pletora di tempi e luoghi eterogenei, reali e immaginari; più che di «opere mondo» si tratta di veri e propri romanzi globali, postnazionali oltre che postmoderni, realizzazioni di universi narrativi che sovvertono lo statuto ontologico dei mondi proiettati nelle oltre duemila pagine.

Sull’altra strada, invece, i cosiddetti romanzi californiani – il più famoso e riuscito dei quali è sicuramente L’incanto del lotto 49 – dove Pynchon gioca con generi popolari altamente codificati come il giallo, il romanzo distopico o il noir, decostruendone le convenzioni narrative attraverso l’uso sapiente della parodia e della satira.

V. è senza dubbio il romanzo che inaugura il periodo d’oro del postmoderno americano, senza il quale, forse, non ci sarebbero stati i libri di Wallace, Vollmann, Franzen, Danielewski, almeno non nella veste in cui li conosciamo. Difficilmente si può mettere in discussione la centralità dello scrittore americano nel panorama letterario che lo circonda, tuttavia in Italia le sue opere più recenti faticano a trovare il riconoscimento che meritano, forse perché all’apparenza meno ambiziose delle precedenti, anche se di certo non meno complesse e brillanti.
Pynchon è tra i pochi, infatti, ad aver saputo adattare la propria scrittura alla sensibilità contemporanea, superando indenne il labirinto autoreferenziale del postmoderno (a John Barth non è andata così bene) per approdare a uno stile nuovo, spiazzante, che nel suo ultimo romanzo si avvicina alla fluidità digitale dei videogiochi e all’immediatezza di situazioni e dialoghi tipica delle serie tv.
Inoltre, Pynchon decostruisce costantemente i generi letterari fioriti nei periodi storici in cui ambienta le sue opere, parodiandone il linguaggio e la struttura; ne risulta un cortocircuito tra presente e passato, a metà tra minuziosa ricostruzione storica e anacronismo spudorato, in grado di far arenare anche il più esperto dei traduttori.

Può capitare, allora, che la traduzione di Mason & Dixon di Massimo Bocchiola (Rizzoli) risulti, per quanto eroica, paradossalmente più complicata, astrusa e straniante della versione originale, scritta in un inglese che ricalca, parodiandolo anche graficamente, lo stile del Settecento. Purtroppo la scelta di usare un equivalente italiano pseudo-settecentesco appesantisce oltremodo la lettura di un romanzo che molti oltreoceano considerano un capolavoro, ma che nella traduzione italiana in pochi hanno potuto apprezzare fino in fondo.

La fortuna di Pynchon in Italia nel corso degli anni è stata inevitabilmente soggetta alla pubblicazione disordinata delle sue opere presso editori diversi e in traduzioni purtroppo non sempre all’altezza di un autore tra i più complessi del secondo Novecento. Ora Einaudi ripropone V. nell’ottima traduzione di Giuseppe Natale all’interno della collana ET scrittori, nonostante l’edizione Rizzoli, con prefazione di Guido Almansi, sia ancora in catalogo. A maggior ragione, dunque, ci si sarebbe aspettati che venisse colta l’occasione per arricchire quello che ormai è a tutti gli effetti un «classico» americano di una nuova prefazione e di un apparato critico, seppur essenziale, che aiutasse a contestualizzarne la posizione nel panorama letterario, a più di cinquant’anni dalla prima pubblicazione.
Quel che è certo, riguardo a Pynchon, è che sarebbe ormai tempo di lasciarsi alle spalle gli aneddoti relativi alla sua invisibilità e alla sua reclusione, l’insistenza sul giudizio che lo relega a autore di romanzi sperimentali astrusi e illeggibili, così come l’immagine di uno scrittore stanco e svogliato che si è dato al romanzo popolare. Perché anche con le sue opere più recenti, Pynchon ha ampiamente dimostrato di aver ancora molto da raccontare, soprattutto sull’America contemporanea.