«Questa è una verità che suscita vergogna, ma che porta anche la gente a mobilitarsi». Pochi mesi fa la giornalista brasiliana Daniela Arbex ha coronato anni di inchieste sui soprusi commessi nel manicomio di Barbacena pubblicando il libro di denuncia Holocausto Brasileiro.

Lei scrive che nella storia della Colonia siano morte più di 60 mila persone. Da quali fonti emerge questo risultato?

È un numero riconosciuto ufficialmente dall’amministrazione dello Stato di Minas Gerais. Un dato approssimativo calcolato a partire dal 1903, anno di fondazione dell’ospedale, fino al 1980, quando subì una riforma nei metodi di cura. Nei mesi più freddi, si registravano fino a 16 decessi al giorno.

Con quali documenti ha stabilito che nel 70% dei ricoveri non c’erano patologie psichiatriche e che i pazienti erano sani?

Attraverso le cartelle cliniche e le testimonianze che ho raccolto durante la ricerca.

Tra i ricoverati nella Colonia c’erano anche molti attivisti. La struttura fu usata come prigione politica in modo sistematico?

No, erano casi indipendenti l’uno dall’altro. L’ospedale fu usato per confinare emarginati e personaggi scomodi di ogni tipo, tra cui naturalmente anche militanti politici. Per esempio nel ’60, pochi anni prima dell’inizio della dittatura militare, l’unità che era stata progettata per accogliere 200 pazienti, ne conteneva già più di 5 mila.

I pazienti non si sono mai ribellati?

Si ribellavano contro il personale con cui avevano contatto. Nel corso degli anni, molti hanno aggredito le guardie, ma la reazione è sempre stata dura. Quanto più i ricoverati diventavano violenti, tanto più venivano violentati e sedati. Una semplice disobbedienza era punita con l’elettroshock o con l’isolamento in celle fetide e senza luce.

Qualcuno è mai riuscito a fuggire?

Sì. Ci sono testimonianze di fughe in cui poi i pazienti venivano cacciati da gruppi di persone armate di bastoni e altri oggetti, anche se non ho trovato documenti che lo confermino.

Perché crede che i pazienti accettassero la prigionia senza reagire?

Perché il rapporto di forze era sproporzionato. I pazienti dell’ospedale non erano considerati persone. Le loro lamentele semplicemente non venivano ascoltate e il loro dolore non importava a nessuno.

Tra i 28 governatori dello stato di Minas Gerais che si sono avvicendati al potere negli anni in cui la Colonia fu attiva, quanti la visitarono?

Ogni volta che cambiava il governo, l’ospedale veniva aperto per mostrare come la precedente amministrazione avesse fallito nel risolverne i problemi. Al di là di questo, poi, quando fu fatta la prima grande denuncia contro la Colonia, nel 1961, il presidente Jânio Quadros promise di stanziare un finanziamento per migliorare le condizioni interne. Invece, gli anni Sessanta furono i più drammatici di tutta la storia di Barbacena e in generale nessun politico ha mai fatto smettere gli abusi, nonostante le dichiarazioni pubbliche.

Con la pubblicazione del suo libro, qualche funzionario è stato processato?

Non che io sappia. Ci sono tuttavia famiglie di pazienti che stanno intentando azioni legali e chiedendo risarcimento contro lo Stato di Minas Gerais.

Che reazioni ha suscitato il suo libro? La storia era nota?

Molti mi hanno raccontato che da bambini vedevano i pazienti lavorare sulle strade, ma non avevano idea di ciò che accadesse dentro le mura dell’ospedale. Queste verità suscitano vergogna, ma al tempo stesso mobilitano.

Le autorità di Minas hanno preso qualche iniziativa riguardo all’edificio? Come per esempio costruire un monumento per le vittime o un museo per ricordarle.

A Barbacena esiste dal 1996 un Museo della Pazzia. Di recente si è proposto di costruire un memoriale nel cimitero della città, dove sono sepolte migliaia delle vittime, ma la cosa è finora rimasta sulla carta. Il 14 agosto scorso, anniversario della fondazione della Colonia, per la prima volta nella sua storia le chiese di Barbacena hanno celebrato una messa di suffragio per ricordare i morti.
(ha collaborato Paolo Galasso)