Il porto di Gaza, a chi si avvicina per la prima volta, colpisce sempre. Forse per i colori sbiaditi delle piccole parche dei pescatori, forse per quelle bandiere sempre presenti sui pescherecci. O forse perché è il luogo della passeggiata, del tempo libero, dei giochi e degli incontri. I gazawi lo ripetono in continuazione: se non fosse per il mare saremmo tutti impazziti.

Il mare permette allo sguardo di aprirsi, di avere un orizzonte che non sia quello del filo spinato e del muro israeliano che chiudono in un assedio vecchio di 9 anni la Striscia a nord ed est. Non che il mare non sia assediato: dopo la firma degli Accordi di Oslo nel 1994 Israele ha concesso alla nascente Autorità Nazionale Palestinese venti miglia nautiche dalla costa.

Ma venti non sono state mai: unilateralmente Israele ha costantemente ridotto la distanza fino a tre miglia nautiche, per riconcederne qualcuna in più solo in occasione di accordi di tregua con Hamas presto disattesi. Lo sanno bene le Freedom Flotilla che hanno provato a rompere l’assedio dal mare e lo sanno bene i pescatori che tentano di mangiare qualche metro alla marina di Tel Aviv: la risposta sono confische di pescherecci e fuoco, spesso letale.

In quelle tre miglia di mare i gazawi devono riuscire a pescare, consapevoli che di pesci lungo la costa non ce ne sono quasi più. Così quello che era uno dei principali scali del Mediterraneo prima del 1967, oggi è un porto chiuso: dal 2000 la produzione è crollata del 40%, dimezzando il numero di pescatori ancora attivi, solo tremila.

Ora c’è chi spera di veder comparire su quel mare, accanto ai pescherecci, qualche barca a vela. L’idea è venuta all’associazione italiana Gazzella Onlus (impegnata da tempo nell’assistenza, la cura e le adozioni a distanza di bambini feriti e disabili in Palestina) e Assopace Palestina ed è stata subito raccolta da Mauro Pandimiglio, direttore della scuola di vela “Mal di mare” di Pescia Romana.

15 ultima storie gaza2

 

Primo passo, insegnare ai bambini a portare una barca a vela. Per questo per due settimane, dal 2 al 14 settembre, dieci ragazzini di Gaza sono venuti in Italia, direzione Pescia Romana. Sette maschi e tre femmine, dai 10 ai 12 anni, che non ci hanno impiegato molto a sentirsi a casa: «Quando sono andata a trovarli alla scuola di vela sono rimasta a bocca aperta – ci racconta Sancia Gaetani dell’associazione Gazzella – Non si capiva chi fossero i palestinesi e chi gli italiani: i bambini erano tutti mescolati, giocavano insieme in un gruppo unico».

Nei giorni trascorsi sul Mar Tirreno, al fianco degli istruttori di “Mal di mare”, sono andati per mare a bordo di Laser e Optimist. Con un obiettivo: usare la vela, usare il mare, come terapia. «Questi dieci bambini fanno parte di un gruppo molto più ampio – spiega al manifesto Mauro Pandimiglio – Trecentomila minori che a Gaza soffrono di disturbi da stress post-traumatico per la violenza ciclica subita nella Striscia. Da sempre ci occupiamo di sociale e di Mediterraneo, la nostra non è una semplice scuola di vela: affrontiamo la disabilità attraverso la vela».

«I giovani del Mediterraneo hanno bisogno di sviluppare conoscenze di questo tipo. Il mare è uno strumento terapeutico di grande valore, noi lo sperimentiamo da 20 anni: dal disagio giovanile nelle carceri ai traumi provocati dai conflitti bellici. E l’ultimo piano è quello della comunità, vivere insieme un’avventura che permetta a questi ragazzi di crescere». Per questo, accanto alla scuola di vela e a corsi esperienziali, ai bambini di Gaza sono state proposte altre attività, dal circo alla costruzione di capanne, dalla musica all’arte: «L’obiettivo è collegare, includere. Mettere insieme terra e mare».

La prima esperienza non sarà che un trampolino di lancio verso un traguardo ben più grande: aprire una scuola di vela nella Striscia di Gaza. «L’idea è creare un centro internazionale per la pace che abbia come strumento centrale la vela, un mezzo che unisca i paesi del mar Mediterraneo e i suoi popoli – continua Pandimiglio – Aprire una scuola di vela a Gaza vorrebbe dire tanto, permettere alla Striscia e ai palestinesi di riappropriarsi del mare che gli è stato tolto. E anche del gioco: riaffermare tramite la vela il diritto dei bambini di giocare».

Non un obiettivo da poco: difficile dimenticare i quattro bambini gazawi uccisi dai raid israeliani nell’estate del 2014 mentre giocavano a pallone sulla spiaggia di Gaza. Una violenza inaudita e disumana che si accompagna alla più generale chiusura che soffoca da un decennio la Striscia. Ogni attività, anche la più semplice, diventa una sfida. Gaza è un mondo chiuso, serrato, dove il mondo esterno è spesso utopia.

I dieci bambini diretti a Pescia Romana hanno avuto le loro difficoltà ad approdare nell’altra sponda del Mediterraneo: «Abbiamo avuto problemi di ogni tipo sul piano burocratico. Ne eravamo stupiti sebbene sapessimo che lì è la quotidianità. Abbiamo atteso fino all’ultimo, poi grazie all’intervento del consolato italiano di Gerusalemme il visto israeliano è arrivato». E con il visto sono arrivati dieci bambini di Gaza, pronti ad un’esperienza nuova e incredibile. In attesa che le prime barche a vela compaiano anche nel mare chiuso della Striscia.