«Adesso il vento, venendo incontro a un nostro desiderio, era girato a ovest. Tanto più facile, quindi, fu la nostra corsa dalla punta nord-occidentale dell’isola all’imboccatura della Baia Nord. Solo che, non essendo in grado di ancorare la nave, e non osando farla arenare finché la marea crescente non fosse arrivata molto più avanti, ci avanzava un sacco di tempo».

Il tempo della marea, se non impone il ritmo dell’episodio, influisce certo nell’articolazione del suo intreccio: il mare svolge il suo ruolo di protagonista anche qui, in apertura del ventiseiesimo capitolo de L’Isola del Tesoro, dove leggiamo, trattenendo il respiro, di Jim Hawkins che, a bordo dell’Hispaniola finalmente arenata, affronta sull’alto pennone del veliero, il suo duello mortale col sottonostromo Israel Hands.

«Ancora un solo passo, signor Hands, dissi, e vi faccio saltare le cervella!» è la didascalia alla tavola di Newell Convers Wyeth (1882-1945) che illustra l’indimenticabile episodio del racconto di Robert Louis Stevenson. Stagliato su una prospettiva dal sotto in su, a seguire l’antenna dell’albero di maestra fin sotto la coffa, la vela calata nasconde il mare sottostante, vediamo Hands mentre si arrampica a fatica sulle sartie, la camiciona chiara lacera e lorda di sangue, una fusciacca rossa ai fianchi, pronto a vibrare il pugnale con un lancio esatto.

Jim è in precario equilibrio sugli stragli della cima dell’albero, una pistola per mano ed entrambe puntate verso il basso in faccia al pirata. Fra un attimo Jim si troverà inchiodato all’albero per una spalla, ma Hands, alla scarica delle due pistole, «con un grido soffocato» precipiterà «nell’acqua a testa in giù». «Tornò a galla una volta in un ribollio di spuma e di sangue, e poi affondò ancora per sempre. Quando l’acqua fu di nuovo ferma potei vederlo tutto rannicchiato che giaceva sulla sabbia pulita e chiara del fondo, all’ombra della nave. Un pesce o due guizzarono sopra il suo corpo».

Questa tavola di Wyeth tra le quattordici che corredano l’edizione Adelphi del capolavoro di Stevenson (quindici con la copertina) è l’unica ove appaia in evidenza l’azzurro del mare, sia pure costretto nel reticolo del cordame come in una vetrata e ridotto, accorciato da un lembo di scoglio che suggerisce la baia ove l’azione fatale si svolge. Del resto la scena, interamente agita sui pinnacoli di una nave, quasi impone una veduta del mare, non era facile eliminare anche questa volta del tutto quella presenza, permanente sfondo della narrazione.

Un secondo lacerto di azzurro troviamo nell’illustrazione dell’assalto al fortino, ma il filo della marina è appena visibile, ostruito dai tronchi d’albero della palizzata e dai ceffi dei corsari. L’illustratore americano rimuove ogni allusione visiva al mare e privilegia la raffigurazione di quei rudi uomini tesi nel viluppo di antagonismi irriducibili. Per Wyeth, non allo stesso modo per Stevenson. È la lotta che segna la condizione degli umani sulla terra. Le tavole di Wyeth si compongono tutte entro la gamma dei bruni, dei marroni e dei verdi spenti, calibrata nell’intensità e registrata a seconda delle combinazioni cromatiche che l’episodio narrato gli suggerisce.

Per lo più in una resa di mezze luci di gialli smorti, Wyeth tesse quella sua stoffa di terre, di ocre e di seppie ad abbigliare la vicenda dell’Hispaniola che corre gli oceani tra le bianche spume, il cobalto delle onde tropicali sotto il celeste dei cieli. Queste illustrazioni recano alla salmastra avventura dei gentiluomini di Treasure Island un sorprendente sentore di bosco e di legni stagionati che non manca di recarci un disagio, a noi «positivi ragazzi del giorno d’oggi», come ci chiama Stevenson nell’invitarci alla lettura, ai quali piacciono «storie di mare su arie marine,/burrasche e avventure,/calori e geli,/golette e isole». Wyeth dipinge un’isola senza mare.

Egli preparò le sue pitture per l’edizione di Treasure Island pubblicata nel 1911 dall’editore Scribner’s di New York. Aveva allora circa trent’anni, la medesima età del libro di Stevenson, stampato nel 1883. Erano coetanei, non so quanto affini.