Una prova di ostinata fiducia nella lettura. Un elogio del mestiere di traduttore e delle vite più o meno ordinarie che si celano dietro figure abitualmente considerate “di servizio”. Un’analisi della materia di cui è fatto un libro, dagli aspetti redazionali a quelli tipografici. Una questione filologica che diventa un vero e proprio enigma, un caso letterario. Un invito alla ricerca: Una variazione di Kafka, il libro di Adriano Sofri appena pubblicato da Sellerio, è un po’ tutto questo. Quella che potrebbe apparire come una questione oziosa – un passo della Metamorfosi non corrispondente al testo originale: errore di traduzione o qualcos’altro? – assume immediatamente un valore metodico; il tentativo di dare risposta a un’ossessione si configura come l’atteggiamento che ogni lettore può sognare di avere nei confronti della propria passione letteraria. Non c’è dubbio che per farlo occorra molto tempo a disposizione, e i detrattori di Sofri potranno agevolmente soffermarsi su questo aspetto – magari aggiungendo che l’orizzonte politico sembra ormai lontanissimo dagli interessi dell’autore, dedicatosi a quel che parrebbe essere (e forse in parte è) una sorta di divertissement borghese. E tuttavia prendere il tempo da dedicare alla ricerca e alla scrittura di un libro come questo significa assumere una posizione meno scontata di quel che appare, e non priva di interesse, che richiede di essere esplorata più a fondo.

Secondo un biografo citato nella seconda di copertina, «una singola sillaba in Kafka può suscitare le emozioni del lettore fin nel profondo». E su una sola sillaba si potrebbe passare una vita intera, a condizione di essere capaci di istituire un orizzonte di senso, di trasformare quelle emozioni e farle risuonare, creando uno spazio in cui esse possano costruire una cosmologia che sorprende pagina dopo pagina perché, ad esempio, strettamente intrecciata con la storia letteraria e politica del Novecento. Il punto di partenza di Sofri è la traduzione italiana del più noto dei racVariazioni di Kafkanti di Kafka, e più precisamente quella che sembrerebbe essere una curiosa svista della traduttrice Anita Rho: se il testo originale recita «lampioni elettrici della strada» (Straßenlampen), la versione italiana parla di «tranvia elettrica» (Straßenbahn). «Ma come si fa a prendere un tram per un lampione?». È questa l’origine di un percorso che decide di non porsi limiti e di percorrere programmaticamente tutte le deviazioni nelle quali incorre, anche le più azzardate, alla ricerca di corrispondenze tanto irrealizzabili quanto affascinanti. Ci si imbarca così in un’indagine che attraversa la geografia di molti luoghi, dalla Spagna all’Uruguay, da Praga a Trieste, rievocando imprese letterarie e culturali diverse e lontane, da Karl Kraus alla Revista de Occidente di Ortega y Gasset, alla costante ricerca di nessi e prove di una tesi che si va precisando via via e assume una sempre maggiore consistenza. Anche se è da subito evidente che il fatto che Kafka sia o meno l’autore di una delle rarissime varianti del racconto (questa la tesi) è solo una delle questioni in campo, e in fondo neanche la più importante. Questo libro è essenzialmente un saggio letterario, ma appartiene a quella famiglia di rari saggi capaci di interpellare nel profondo la scrittura saggistica stessa. Forse è l’oggetto della narrazione a determinare questa condotta, dal momento che la scrittura di Kafka ha interrogato altri autori importanti – da Walter Benjamin a Deleuze & Guattari, da Luciano Zagari a Elias Canetti – capaci di offrire altrettanti spunti innovativi. Che nessuno di essi sia citato nel libro di Sofri è un ulteriore elemento di interesse nei confronti di un’operazione che vuole essere, in fin dei conti, un omaggio alla grandezza della letteratura kafkiana.

E tuttavia questo non è soltanto un libro su Kafka. Il fil rouge è semmai una domanda essenziale e nascosta: come si scrive un saggio? Molte forme di saggistica istituzionalizzata – la stragrande maggioranza di una produzione accademica superflua e anestetizzata – sembrano impedirsi strutturalmente una lettura viva e inibire di conseguenza possibilità di innovazione. La posizione di Sofri, dichiaratamente amatoriale, traduce una passione profondamente umanistica in cui la finesse ha più importanza della géometrie, e nasce da un debito esplicitato nei ringraziamenti: «un’occasione importante che mi indusse a occuparmi più da vicino di Kafka fu l’amore che gli aveva dedicato per tutta la vita Antonio Cassese». Vengono in mente altri testi, di tipo molto diverso, che potrebbero dialogare con questo libro in quanto modelli trasversali per chiunque provi a misurarsi con questa forma di scrittura: dal saggio di David Foster Wallace su Strade perdute di David Lynch al Domenico Scandella detto Menocchio di Carlo Ginzburg, dalle Lezioni americane di Calvino al ritratto di Lucentini realizzato da Domenico Scarpa – ognuno aggiungerà a piacimento i riferimenti che segnano i piccoli e grandi momenti spartiacque della propria carriera di lettore. Se Una variazione di Kafka può aggiungersi a questa lista di punti di riferimento che gli studenti di qualsiasi disciplina potrebbero leggere con profitto è perché condivide uno spirito più che un’impostazione, e anche perché, pur con i limiti che gli specialisti potranno riscontrare – anche se non è da escludere che il testo possa giovare ai più rigorosi tra i germanisti di professione –, è come quegli altri un’operazione vitale, e c’è da augurarsi contagiosa.

Parlando del modo in cui si dovrebbe scrivere un libro di filosofia, Gilles Deleuze lo ha paragonato a una specie di romanzo poliziesco. Sofri probabilmente non è consapevole di aver preso quasi alla lettera l’indicazione di Deleuze, realizzando un libro che è un inno all’intus legere anche per il fatto di spingere i lettori ad assumere il medesimo atteggiamento. Così sembra di poter leggere infatti alcune affermazioni che chiedono di essere interrogate, come a costituire uno dei tanti strati e delle tante sottotrame di un libro che invita il lettore a replicare lo stesso gioco che l’autore ha giocato nell’esplorare la scrittura di Kafka. È il caso del duplice riferimento – improvviso, inatteso – a un pubblico prevalentemente femminile cui si starebbe rivolgendo: «Sto pretendendo dai lettori – dalle lettrici, più probabilmente» (p. 99); «Potete immaginare che gloria sarebbe per me se qualcuno, o probabilmente qualcuna […]» (p. 124) (corsivi miei). Più che una forma di galanteria, uno dei campanelli presenti nel testo, quasi ad accertarsi di non perdere il lettore nei meandri di una ricerca che non ha gli aspetti di una ricerca ordinaria.

D’altra parte non si tratta di un libro rivolto a un pubblico di studiosi, ma di un dialogo aperto a qualsiasi tipologia di lettore. Lo stile di Sofri è preciso e ironico, di una leggerezza densa di studio e di pensiero. Di qui l’organizzazione del testo, diviso in due parti: il saggio principale e le note, che costituiscono a loro volta un altro saggio, un «libro ombra», l’upside down di quello che leggiamo. I due godono di esistenze potenzialmente autonome, anche se sbaglieremmo a pensare il secondo come l’apparato scientifico del primo visto che ne rappresenta semmai il diario di bordo, l’elenco ordinato e ragionato delle tappe affrontate e la possibilità concreta di dar spazio a tutte le eventuali derive. Da questo punto di vista non esiste differenza stilistica tra le due parti, pervase come sono della soggettività della ricerca. Quale vera ricerca, in fondo, può esserne esente?

È questo forse il punto essenziale, ciò che più contrasta con la pratica di una presunta e asettica scientificità così diffusa nei nostri tempi. Non tutte le ricerche sono utili. E per quanto avvincente, non è l’oggetto di questa ricerca a distinguerla da molte altre. Né è determinante il talento dell’autore, il cui linguaggio è qui essenziale, chirurgico: i mondi che ha scoperto sono talmente tanti da non poter perdere tempo in chiacchiere o notazioni superflue. Sottoposto al vaglio di una commissione di valutazione della ricerca universitaria, non la passerebbe liscia. Eppure questo libro svela i meccanismi che possono motivare e rendere appassionante una ricerca, e sembra dire a ogni potenziale ricercatore: «fa’ in modo di assumere questo atteggiamento, oppure dedicati ad altro».

Passione” non è forse il termine più esatto: sarebbe meglio definirlo un vero e proprio tormento. Tra Straßenbahn e Straßenlampen, l’alternativa che tormenta Sofri è feconda ancorché irrisolta, o forse feconda proprio perché irrisolta, e si sarebbe quasi tentati di affermare che «di fronte a due così incerte interpretazioni, se ne può dedurre a buon diritto che siano entrambe inesatte» e tuttavia, come nel cruccio sull’origine della parola “Odradek” che preoccupa il padre di famiglia dell’omonimo racconto di Kafka, «nessuno si affannerebbe in simili studi» se dietro una simile questione non si celasse qualcosa di importantissimo. Che altro non è se non la posta in gioco di ogni lettura, e il suo nesso inestricabile con la vita. Non soltanto dunque il percorso che partendo dall’Internazionale dei traduttori di Kafka ci conduce da Borges all’elogio di Google (anche Google è una lei, scommette Sofri), dal Kinematographen-Theater della Praga primo-novecentesca alla guerra civile spagnola, o che ci porta a scoprire l’esistenza di personaggi dimenticati come l’ebrea-artista-intellettuale-comunista-puttana Margarita Nelken. Ma un più generale e segreto patto che lega il lettore al libro che ha tra le mani, una promessa di felicità e una prova di emancipazione: la possibilità di far parte della costruzione del mondo letterario se si crede fino in fondo nelle potenzialità che esso dispiega. Un rimescolamento dei ruoli non semplice, non frequente, non scontato, eppure significativo, reale e vitale.